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25 Aprile, Cozzi ricostruisce la forza della Resistenza: un movimento di popolo con tante donne e l’unione di tutti i partiti antifascisti

L’orazione finale è stata affidata al magistrato ex Procuratore della Repubblica che ha strappato applausi alla folla presente. Ha ricordato anche le parole di Mattarella: «L’odio, il pregiudizio, il razzismo, l’estremismo, l’indifferenza e il delirio di potenza sono sempre in agguato e fidano in permanenza la coscienza delle persone e dei popoli». Fischi per Bucci e Toti. Il presidente della Regione ha indirettamente risposto a Gianni Plinio che aveva chiesto di «far deporre una corona di fiori anche al Sacrario dei Caduti della RSI nel cimitero di Staglieno in cui sono tumulati i resti di 1536 tra militari e civili». Toti ha detto: «Nel Pantheon della Repubblica ci stanno le vittime che si sono sacrificate per la libertà, non coloro che si sono sacrificati dall’altra parte. Questo deve essere chiaro. La pietà va a tutti i morti, ma la celebrazione della libertà va a chi l’ha riconquistata»

La giornata del 25 Aprile è cominciata a Staglieno con la formazione di un corteo e la deposizione di corone al campo israelitico, ai monumenti dedicati agli internati e ai deportati nei lager nazisti, al sacrario Trento e Trieste e al campo dei Caduti Partigiani dove è stata celebrata una Santa Messa in suffragio.

Alle 10 il raduno in piazza della Vittoria, da dove è partito il corteo accompagnato da esecuzioni della Filarmonica Sestrese è partito per raggiungere il ponte Monumentale, dove sono state deposte corone al sacrario dei caduti partigiani e si è tenuta la lettura della motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Città di Genova e dell’Atto di Resa delle truppe tedesche.

Foto di Angelo Spanò e Nico Cadosh

Il corteo è arrivato poi in largo Pertini per deporre altre corone e infine ha raggiunto piazza Matteotti dove il sindaco di Genova Marco Bucci e il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti hanno portato i loro saluti, accolti dai fischi. Il particolare, Bucci è stato contestato da prima che cominciasse a parlare. In piazza è comparso lo striscione con la scritta “È teppista chi non è antifascista”. Il riferimento è alla frase pronunciata dal Sindaco nell’autunno scorso quando, nel corso delle manifestazioni per Ansaldo Energia, i lavoratori occuparono l’aeroporto, bloccando i voli. Nel corso della manifestazione di protesta dello scorso anno uno dei lavoratori, poi denunciato, aveva aggredito senza motivo un poliziotto con un martello. Bucci è stato contestato dalla Fiom per lo stesso motivo anche qualche giorno fa, nel corso della commemorazione in fabbrica.

L’orazione commemorativa è stata pronunciata da Francesco Cozzi, già procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Genova.

Gli interventi di questa mattina in piazza Matteotti

Marco Bucci, sindaco di Genova

Oggi noi festeggiamo il 25 Aprile. Che è la festa dell’Italia, ma è anche la festa della nostra città. I nostri eroi, le persone che sono morte oggi sono festeggiate dalla nostra città con coraggio, con gioia e con soddisfazione. Loro sono i nostri eroi e con loro noi continueremo a pensare, ad avere suggerimenti e a fare il nostro futuro.

Ricordiamoci che il porto di Genova è stato liberato dai genovesi prima che arrivassero gli alleati e così le fabbriche e così le nostre case e così le colline. Noi a Genova ci siamo riusciti e di questo siamo estremamente orgogliosi e ringraziamo tutti quelli che ci sono sacrificati sino a lasciare la vita per questo motivo. Non possiamo far altro che dire grazie a loro e ricordarli, ricordarli soprattutto oggi, dove noi abbiamo un futuro davanti a noi e abbiamo bisogno di coraggio. Abbiamo bisogno di persone, abbiamo bisogno di persone che con quell’amor di patria, dolore per l’oppressione e coraggio per il futuro e fiero carattere hanno costruito Genova nel ’45 e continueranno a costruire Genova per il futuro, per noi e per le nostre generazioni. Viva 25 Aprile, viva la libertà e viva Genova!

Giovanni Toti, presidente della Regione Liguria

Buongiorno e buon 25 Aprile. Beh, oggi come ogni anno celebriamo un giorno. In cui ricordiamo il sacrificio di tante persone, donne e uomini della Resistenza, così come uomini delle truppe delle Nazioni Unite, che hanno ridato la libertà al nostro paese. Quella libertà che vi consente oggi di fischiare, come consente a me di parlare da questo palco

Perché combattere e sacrificarsi per la libertà come hanno fatto i partigiani, non vuol dire combattere solo per le proprie idee, vuol dire combattere, soprattutto perché anche gli altri possano esprimere le loro. È quella la vera differenza. E allora in questa giornata che è fondativa della nostra Repubblica e che celebra la fine di una guerra civile, dobbiamo essere molto chiari. Nel Pantheon della Repubblica ci stanno le vittime che si sono sacrificate per la libertà, non coloro che si sono sacrificati dall’altra parte. Questo deve essere chiaro, la pietà va a tutti i morti, ma la celebrazione della libertà va a chi l’ha riconquistata. Così come. Bisogna sempre tenere presente. lo disse per prima una presidentessa donna della Camera, Nilde Iotti, che la resistenza fu un movimento che unificò l’Italia dai generali Badogliani, all’epoca monarchici, ai partigiani comunisti e questo è. Lo spirito che anima la festa della liberazione è la nostra Repubblica, perché, sempre citando un ligure illustre, lo disse Pertini alla migliore delle dittature, questa piazza preferirà sempre la peggiore delle democrazie. E allora celebriamo tutti insieme questo 25 Aprile ricordandoci che questa giornata ci dice un’altra cosa: non esiste pace senza giustizia, libertà e diritti. E lo ricordo perché il secondo 25 Aprile, che celebriamo con la guerra a fianco, alle porte dell’Europa e la nostra vicinanza a chi lotta per la libertà, deve essere allora come oggi per il popolo ucraino. Buon 25 Aprile a tutti.

Il presidente provinciale dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia Massimo Bisca

Buongiorno a tutti. Vorrei cominciare questo mio breve intervento. Ricordando quegli uomini e quelle donne che tanti anni fa liberarono Genova. Ma voglio ricordare con loro i loro compagni di lotta che per tanti anni sono venuti qui, in questa piazza, a fianco a noi, quelli che ai nostri padri e le nostre madri che ci hanno educato ai valori della Resistenza.

Non hanno aspettato che qualcuno portasse loro la libertà. Hanno scavato nelle loro coscienze, hanno discusso e si sono Uniti perché l’unità è la lezione migliore che la resistenza ci ha dato. E hanno pagato per questo. Alla casa dello studente dove sono stati torturati. Alla Benedicta, dove son stati fucilati, a Cravasco, a Isoverde, a Passo Mezzano, a Portofino. L’elenco è interminabile. Ed erano insieme, ricordiamocelo, sempre. Dai monarchici agli anarchici. Hanno ucciso a botte Don Ciarafoni, prete di Pegli, hanno messo in galera Don Gaggero, ma vicino a lui hanno fucilato Giacomo Buranello, Walter Fillak e l’elenco è lungo. E allora da quei valori che hanno sognato in questa città e sulle montagne. Molti pensavano a come sarebbe stato il nostro paese dopo. E chi è sopravvissuta alla guerra ha scritto il frutto migliore di quella lotta che si chiama Costituzione della Repubblica. Che va difesa. Va applicata, non va snaturata. E allora, siccome in questo periodo, ma non solo, c’è chi pensa di stravolgere la storia, di cancellarla e di mettere sullo stesso piano i partigiani, le donne e gli uomini e chi invece li ha caricati sui treni come il 16 giugno del 1944, che ha caricato quegli operai, quei tecnici, quegli impiegati che hanno difeso le fabbriche, il porto, noi dobbiamo avere una nuova ondata di antifascismo. E la si ha. Mettendo in pratica il primo articolo della Costituzione che dice che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, non sullo sfruttamento, non non rispettando chi lavora e la sua dignità. Finisco ricordandovi una cosa. Tanti anni fa qua è venuto uno che era con Buranello, si chiamava Gianni Ponta. E finché è venuto qui mi ha sempre detto: “Ricordati Massimo, finché avremo un po di fiato lotteremo fino in fondo perché nessuno potrà mettere in discussione, con quello che abbiamo fatto, quella generazione ci ha insegnato, a me e a tanti di noi, a rispondere alle provocazioni perché non son finite dopo la guerra. Qui, nel 30 giugno del ’60 Genova ha risposto. Qui, quando mettevano le bombe sui treni fascisti in piazza della Loggia, nella stazione di Bologna, eravamo qui e in piazza De Ferrari e ci è servito anche nel periodo brutto del terrorismo, quando Guido Rossa ha difeso la Costituzione. E allora basta, con gli stravolgimenti. Non serve che andate in Cecoslovacchia per ricordare Jan Palach che anche noi ricordiamo. Io vorrei che si ricordasse lo studente che raffigurato in questa lapida a fianco a noi, Kōstas Geōrgakīs, che si bruciò in questa piazza per protestare contro i colonnelli greci, dove andavano in quella dittatura fascista tanti fascisti italiani, per fare come in Grecia a casa nostra, ecco la differenza che c’è. Questa è una data divisiva, è vero, tra gli antifascisti e i fascisti. Allora. Per ricordare quelli caduti per la libertà dobbiamo essere degni di quell’eredità, ognuno di noi porta avanti quei sogni, quei progetti, e si renda conto che la Costituzione della Repubblica non è un pezzo di carta legato alla storia, ma è un programma straordinario per il futuro di questo paese. Lottiamo perché la Costituzione sia applicata, perché, come disse Aldo Moro alla Costituente, non potrà mai essere afascista. Sarà e continuerà ad essere antifascista, sennò non se ne capiscono le radici, i valori e i contenuti. Viva il 25 Aprile!

Francesco Cozzi, già procuratore capo della Repubblica presso il tribunale di Genova

«Autorità civili, militari e religiose. Cari cittadini e cari tutti oggi qui presenti. siamo qui oggi per celebrare la settantottesima ricorrenza della festa della liberazione, liberazione da che cosa? Dal nazifascismo dell’ottantesimo anniversario del suo inizio, all’indomani dell’otto settembre 1943.
Per celebrare la liberazione, credo sia giusto muovere dall’otto settembre 1943, unanimemente considerato il momento più drammatico, angosciante, caotico, ma allo stesso tempo tra i più decisivi dell’intera storia italiana dall’Unità ad oggi.

Quando il capo del governo, maresciallo Badoglio, annunciò per radio la firma dell’armistizio con gli angloamericani siglata alcuni giorni prima a Cassibile. L’Italia cessava ogni ostilità nei confronti degli angloamericani. La data dell’otto settembre rappresentò in verità uno spartiacque, da una parte una certa idea di patria, quella che moriva, fondata sull’esaltazione della forza, sul mito della potenza coloniale e della razza italica. Dall’altra parte, una nuova idea di patria animata da un anelito di libertà che in quell’immane catastrofe iniziava a farsi luce nella coscienza collettiva. Quel giorno moriva, non la patria, ma morivano le Istituzioni. Per comprendere meglio la portata del disastroso collasso seguito a quell’annuncio, occorre ricordare gli accadimenti e ciò che si agitava nell’animo degli italiani immediatamente dopo lo sbarco alleato in Sicilia, iniziato il 9 luglio dopo la seduta del Gran Consiglio che provocò la caduta del regime al 25 luglio e dopo l’insediamento a capo del governo del maresciallo Badoglio. Il paese era stremato dalla guerra con disfatte continue, nonostante gli innumerevoli atti di eroismo dei militari italiani. Dai continui bombardamenti, dalla mancanza di generi di prima necessità e di medicine. A seguito dell’arresto di Mussolini, vi furono infatti settimane convulse di esplosione di gioia perché si riteneva imminente la fine della guerra, ma i 45 giorni che ne seguirono non furono giorni di festosa allegria poiché, al contrario, furono segnati dall’ambiguità dei vertici dello Stato che non esitarono a reprimere nel sangue le manifestazioni popolari di giubilo, lasciando sulle piazze 93 morti e centinaia di feriti. Il paese pareva vivere sospeso, incerto, angosciato in un clima di ansiosa attesa, tra tumulti di speranza e cupa incertezza sul suo futuro. L’improvviso annuncio dell’armistizio senza che il governo Badoglio avesse preparato una qualche strategia e impartito una minima e doverosa direttiva ai comandi dislocati nei vari teatri di guerra, lasciò nel totale abbandono circa due milioni di soldati italiani. Il paese si sarebbe spezzato in due, occupato di fatto da due eserciti stranieri, il Centro nord, dagli ex alleati tedeschi, il sud dai futuri alleati angloamericani. Dal baratro in cui la nazione era precipitata, nasceva il 23 settembre la Repubblica sociale, reincarnazione del fascismo mussoliniano, in posizione subalterna rispetto alla Germania nazista che aveva deciso l’occupazione militare di tutta la penisola con il piano ACS, catturando centinaia di migliaia di soldati e impossessandosi degli armamenti. Si scatenava così la guerra civile, ma se il re Badoglio e i capi militari si erano dati alla fuga. già prima di quella data, molti soldati e civili avevano preso la via dei Monti dando vita ai primi nuclei partigiani armati e con loro, muovendo da una pluralità di motivazioni ideali e morali, molte altre componenti della società civile contribuirono a formare un vero e proprio esercito di popolo che se per risollevarsi da quel baratro e ridare dignità alla nazione. Quali erano le motivazioni? Le motivazioni spaziavano dal puro e semplice rifiuto morale dei militari italiani di consegnare le armi e assoggettarsi ai tedeschi al diniego di molti giovani di arruolarsi tra le fila dell’esercito di Salò, nonostante la minaccia di fucilazione, alla lotta degli operai che già nei mesi precedenti avevano promosso scioperi e atti di sabotaggio della produzione bellica. Una mobilitazione spesso spontanea e diffusa che nel tempo potè contare sulla generosa solidarietà dei contadini e della popolazione civile, senza la quale la resistenza sarebbe stata più debole se non addirittura impossibile. Dunque, erano fondamentalmente il no alla guerra e insieme la speranza di costruire un avvenire di giustizia e libertà che motivavano e unificavano quella che possiamo definire come la resistenza civile di molti, la quale si saldò con la resistenza armata che, sorta spontaneamente, veniva strutturandosi militarmente politicamente attorno ai partiti antifascisti: democristiani, comunisti, socialisti, azionisti, democratici del lavoro, liberali. Si formarono così le Brigate Garibaldi, Matteotti, Giustizia, Libertà, Mazzini, Fiamme Verdi. I partiti usciti dalla clandestinità avevano dato vita al Comitato di liberazione nazionale. Per l’insieme di queste ragioni, dunque, come la storiografia ha puntualmente approfondito negli ultimi due decenni, emerge evidente la complessità e la specificità della resistenza italiana. Una certa visione agiografica l’aveva esclusivamente identificata con la lotta dei partigiani. Ma è ormai largamente condivisa la convinzione che la resistenza non fu solamente la lotta armata delle formazioni partigiane in montagna e dei nuclei guerriglieri in città, come i gruppi di azione patriottica e le squadre di azione patriottica che che ne erano la parte più combattiva. I gap e le sap. Vi fu una pluralità di motivazioni e di soggetti a dare impulso al motto di riscatto nazionale. Ma quali erano le componenti sociali dietro quelle motivazioni? Anzitutto la pagina scritta dai militari italiani, a lungo ingiustamente confinati in una sorta di oblio, come accadde dolorosamente in quegli stessi anni del dopoguerra, ai sopravvissuti dai campi di sterminio. Fin dai giorni successivi all’otto settembre, innumerevoli sono gli episodi che videro i soldati italiani combattere e pagare un alto tributo di sangue per il loro rifiuto di cedere le armi ai reparti della Wermacht. Basti ricordare l’eccidio di migliaia di soldati e ufficiali della divisione Acqui, dopo la resa a Cefalonia. Gli oltre 1000 soldati morti per opporsi spontaneamente, insieme ai civili, all’occupazione di Roma, a porta San Paolo, abbandonata all’occupazione dei vertici militari. In secondo luogo, la penosa via crucis dei nostri militari deportati nei lager nazisti circa 650.000, ai quali non venne riconosciuta nemmeno la tutela prevista dalla Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra. Per loro, infatti, con la complicità della Repubblica di Salò, venne coniata la denominazione di internati militari Italiani IMI, uno status spurio, ambiguo, che li espose alle più vili umiliazioni ed angherie. Tra loro vorrei ricordare qui, forse per la prima volta, i 2000 carabinieri, il 7 ottobre disarmati per ordine del ministro Graziani, alla vigilia delle razzie e delle deportazione degli ebrei dal ghetto, i carabinieri vennero arrestati proditoriamente a Roma dai tedeschi e deportati nei campi in Germania, Austria e Polonia. Più di 500 di loro non tornarono perché furono uccisi anche proditoriamente o morirono per maltrattamenti. Solo il 10/15% dei militari deportati accettò di arruolarsi coi tedeschi o nelle armate della Repubblica di Salò. Alla base del rifiuto non vi fu per i più una scelta consapevole di antifascismo, quanto piuttosto il senso di onore militare di patria, ma anche il crescente rifiuto del fascismo e della guerra. Quella enorme sofferenza scelta con dignità, per molto tempo, però, non ebbe alcun riconoscimento neppure da parte del proprio paese. Ed ancora, la persecuzione razziale e la deportazione e lo sterminio degli ebrei precedute dalle ignobili leggi razziali portate avanti con zelo dalla Repubblica Sociale e la lotta degli ex prigionieri alleati rimasti a combattere per la liberazione dell’Italia. Infine, la più recente storiografia ha messo in evidenza quella altrettanto trascurata e nascosta delle donne. Un protagonismo delle donne rimosso a lungo dalle stesse componenti resistenziali. Anche in ragione di una visione maschilista che appare paradossale nel dopoguerra, quando, proprio grazie alla lotta di Resistenza, le donne entrarono a pieno titolo nella vita pubblica e godettero formalmente di quei diritti sanciti nell’articolo tre della nostra Carta costituzionale, a cominciare dal diritto di voto, da esse esercitato per la prima volta nella storia nazionale nel referendum del 2 giugno del 1946. Grazie. Questa sorta di espulsione, questa sorta di espulsione postuma delle donne della resistenza risulta essere inoltre tanto più incomprensibile se si considera che, come scrivono Anna Brava e Annamaria Bruzzone nel loro libro intitolato “Guerra senza armi”, esse sono state le uniche volontarie in quanto non sottoposte ai bandi di reclutamento e in generale non obbligate al nascondimento e aggiungono che il loro impegno si manifestò sia nello scontro armato sia nel lavoro di informazione, approvvigionamento e collegamento nei gruppi di difesa della donna, come nelle altre organizzazioni femminili. Il loro numero si stima molto superiore alle 35.000 partigiane riconosciute in base alle domande presentate alle commissioni competenti alla fine del conflitto. Un numero che anche in Liguria andrebbe ben oltre le 2.028 censite nella meticolosa ricerca dell’Istituto ligure per la storia della resistenza e dell’età contemporanea. Molte subirono sevizie, torture, stupri, anche di gruppo, considerato allora un reato contro la morale. e non solo dalle Brigate nere, ma anche dai militari della Repubblica Sociale. Tutti questi italiani condussero una guerra senza armi. Fu una resistenza condotta da civili che diede vita ad una fitta rete solidaristica e che in vario modo vedeva partecipe un composito arcipelago di cittadini di ogni età e ogni ceto. La logica terroristica delle Brigate nere delle SS preposte alla repressione antipartigiana e alle rappresaglie contro la popolazione inerme manifestò la sua atrocità in molti eccidi, tra i quali non si possono non ricordare quelli delle Fosse Ardeatine, di Sant’Anna di Stazzema, di Marzabotto, di Boves. E qui in Liguria, per dirne solo una, di Cichero. Ma in quei lunghi 20 mesi si passerà da una resistenza istintiva e spontanea a forme più organizzate, pervase da una crescente consapevolezza antitedesca antifascista, di supporto all’azione delle forze alleate. In questo più generale contesto, Genova la Liguria è stata una delle aree in cui il movimento resistenziale si è espresso con più forza e combattività. Questo certamente per le sue tradizioni repubblicane, antifasciste e particolarmente per la presenza di una classe operaia fortemente sindacalizzata. Che fin dal primo conflitto mondiale. Era cresciuta parallelamente allo sviluppo della grande industria moderna della cantieristica e del sistema portuale. Dopo i grandi scioperi del marzo ’43 nelle fabbriche di Torino e Milano, la mobilitazione dei lavoratori sulla scia delle rivendicazioni salariali assunse sempre più connotati politici e crebbe in tutta la regione. Tra dicembre del ’43 e l’inizio dell’estate del ’44, quando venne messo in atto il più grande rastrellamento di lavoratori italiani. L’operazione si concentrò sul complesso industriale del ponente genovese dopo gli scioperi degli stabilimenti Ansaldo e San Giorgio e si concluse nel giugno del ’44 con la deportazione di circa 1.500 tra operai, impiegati e dirigenti che andarono a rinfoltire l’esercito del lavoro coatto del Terzo Reich. Questo accadeva poche settimane dopo la strage per rappresaglia del Turchino di 59 antifascisti già tenuto già detenuti, il 23 maggio del 44. Nella nostra regione, il movimento partigiano risultò tra i più solidi proprio grazie ai suoi profondi e diffusi legami col tessuto sociale e culturale del territorio, su circa 235.000 patrioti e partigiani riconosciuti nel dopoguerra dalle commissioni ricompart, i combattenti liguri sono stati oltre 35.000 dei quali. Grazie dei quali 2.658 sono caduti in combattimento, 2.658, o a seguito di rappresaglie a fronte di di 44.720 partigiani caduti in Italia e di oltre 150.000 vittime civili. Essi appartenevano ad ogni settore lavorativo e professionale, dall’industria all’agricoltura, dall’università alla pubblica amministrazione, dalle forze dell’ordine alle forze armate, con una significativa presenza di giovani provenienti dalle regioni meridionali. Altrettanto ampio risulta il ventaglio degli orientamenti politici, religiosi e culturali che può esplicarsi nella biografia di alcune figure, tra le quali vorrei ricordare insieme a voi le luminose figure di Aldo Gastaldi, Bisagno. sottotenente del genio, fervente cattolico Giacomo Buranello, studente di profonda fede comunista, capo dei gap di città, fucilato dopo torture, entrambi decorati con la medaglia d’oro al Valor militare, Luciano Bolis, studente, si recise le corde vocali per non parlare. Don Bobbio, fucilato a Chiavari e con lui tanti sacerdoti che presero parte alla lotta di liberazione in Liguria. Il tenente dei carabinieri Giuseppe Avezzano Comes che si rifiutò a rischio della propria vita e dei suoi 20 carabinieri, di fucilare 8 antifascisti, Ines Negri, staffetta partigiana seviziata e uccisa a Savona, come Clelia Corradini. Chiarini Rina, Clara, arrestate e seviziata la casa dello studente, così da perdere il figlio che aveva in grembo e tantissimi altri, tra cui Nicola Panevino, giudice del Tribunale di Savona, membro del CLN trucidato a Cravasco, e Dino Col, anche lui giovane magistrato deportato a Flossenburg, dove morì di stenti nel dicembre del ’44. Una sciagura di immani proporzioni venne scongiurata anche per l’impegno diplomatico del Cardinale Pietro Boetto, arcivescovo della città. Quando gli alleati giunsero a Genova a trovare la città liberata dai partigiani ai quali l’esercito tedesco si era arreso, i tram funzionavano. Autorità, cari amici, dal quadro generale che ho sommariamente richiamato emerge dunque il carattere pluralistico e unitario della resistenza italiana e di quella genovese in particolare. Fu un insieme di scelte e di comportamenti differenti che si intrecciano e si incrementarono nell’arco di circa 20 mesi. Nel loro progredire prevarranno carattere più netti che diventeranno il simbolo di tutta la Resistenza, ma tutti ebbero come obiettivo la conquista della libertà. Tutti siamo consapevoli – e dobbiamo esserlo – che senza la lotta di liberazione gli italiani non avrebbero mai potuto svolgere né il referendum istituzionale nel quale il 2 giugno del ’46 scelsero la Repubblica, né avrebbero potuto scrivere autonomamente alla loro costituzione, tra le più avanzate del mondo, approvata il 22 dicembre ’47 ed entrata in vigore il 1º gennaio ’48. La legge delle leggi nella quale è racchiusa la memoria del passato e la speranza del futuro. Dove sono iscritti i diritti e i doveri di ognuno, l’equilibrio dei poteri e le funzioni di garanzia contro ogni rischio di violazione dei diritti dei singoli e delle minoranze, come metteva in guardia già Alexis de Tocqueville. Questo, dunque, è uno dei frutti preziosi della Resistenza che si fonda sui valori della solidarietà e della giustizia, che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo e di chi fugge dalle guerre e dalle persecuzioni e riconosce la dignità di ogni essere umano. Una legge che favorisce la libera espressione delle idee, che devono essere sempre tutelate e rispettate, come non fu nel ventennio famigerato e nei regimi dispotici di oggi. Essa presuppone ed esprime in tutte le sue disposizioni e non solo nella dodicesima transitoria, che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista sotto qualsiasi forma, principi e valori opposti a quelli della cultura fascista. I diritti di libertà, di associazionismo non armato, il pluralismo è il metodo democratico, il ripudio della guerra, il rispetto della dignità umana. Questi sono valori opposti a quelli del fascismo. Questo è il primo discrimine tra democrazia e dittatura. Come scrisse Italo Calvino, scrittore che tutti conoscete, partigiano nell’imperiese, nel romanzo “Il sentiero dei nidi di ragno”, lo stesso furore portava a sparare i partigiani come i fascisti, con la differenza che noi nella storia siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra, da noi niente va perduto. Nessun gesto, nessuno sparo, tutto servirà se non a liberare noi, a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena in cui si possa non essere cattivi. Per tale ragione questa pagina della nostra storia recente va coltivata con orgoglio e spirito di verità, non piegato a puerili logiche politiche o a grottesche manifestazioni apologetiche nostalgiche fuori dalla storia e della Costituzione. Cancellarne la memoria in nome di un malinteso unanimismo significa perdere la consapevolezza e la volontà di non ripetere sotto bandiere diverse, l’affermazione degli stessi principi di negazione della libertà e di affermazione di forze violenza contro i più deboli, i diversi, i sostenitori di altre idee. Come ha ricordato pochi giorni fa il Presidente, il nostro Presidente Mattarella, di fronte all’orrore di Auschwitz, e come le vicende internazionali, purtroppo ci dimostrano l’odio, il pregiudizio, il razzismo, l’estremismo, l’indifferenza e il delirio di potenza sono sempre in agguato e fidano in permanenza la coscienza delle persone e dei popoli. Un applauso per il Presidente Mattarella. Non per me, per lui. Dunque, siamo qui a festeggiare con fierezza la liberazione e a ricordare un capitolo tormentato della storia del nostro paese, il quale fin dall’immediato dopoguerra, oltre alla faticosa opera di ricostruzione, dovette affrontare una difficile transizione in un quadro internazionale sul quale quasi subito calò il gelo della Cortina di ferro. Come disse Winston Churchill nel suo discorso a Fulton nel marzo del ’46. Consapevoli che in quella temperie segnata dalla guerra fredda e dalla stessa divisione dell’Alleanza antifascista, il referendum istituzionale sancì la nascita della Repubblica e che i padri costituenti seppero compiere quel vero e proprio miracolo, la miracolo laico, come lo definì Piero Calamandrei, approvando la Carta costituzionale. La nostra legge fondamentale che deve essere letta e conosciuta per intero e non solo nelle parti che più ci piacciono. Un risultato non scontato che di certo non sarebbe stato neppure immaginabile senza quel moto di riscatto morale e civile che animò la Resistenza, che non a caso, Carlo Azeglio Ciampi definì emblematicamente il secondo Risorgimento. La lotta di liberazione, infatti, non vide protagonista solo una élite illuminata, non fu solo un atto di ribellione armata, essa, diversamente dagli altri Stati europei che combatterono per cacciare lo straniero occupante, fu allo stesso tempo lotta di affrancamento dalla tirannia – e quindi anche guerra civile – e dal dominio straniero. E progetto di futuro e per una parte fu anche lotta di classe. E il merito di ciò va scritto senza dubbio alla funzione dirigente che seppero esercitare i partiti antifascisti, i quali riuscirono a guardare al di là delle loro divergenze, che pure erano profonde. Così come nessuno può negare che vennero gettate allora le basi di una nuova idea di Europa fondata sui diritti del cittadino e sull’autodeterminazione degli Stati. Sulla pace e sulla cooperazione tra i popoli, come venne scritto da Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, nel Manifesto di Ventotene del 1941. Un patrimonio di principi e di valori che appartengono a tutti e che dobbiamo saper preservare integri per l’avvenire dei nostri figli e delle giovani generazioni. Per questo la memoria di coloro che sacrificarono la loro vita ci riguarda tutti. Cerchiamo di essere sempre degni e di non dovercene vergognare anche di fronte a loro.


Oggi, Gianni Plinio, storico esponente della destra e già assessore della giunta regionale condotta da Sandro Biasotti e già presidente del Consiglio regionale, dopo gli appelli dei giorni scorsi (caduti nel vuoto) a Bucci e Toti «far deporre una corona di fiori anche al Sacrario dei Caduti della RSI nel cimitero di Staglieno in cui sono tumulati i resti di 1536 tra militari e civili», rilancia con una nota: «Come previsto il 25 Aprile non è la festa  di tutti. Le contestazioni al sindaco Bucci ed al presidente Toti dimostrano che altro non è che la giornata dei nostalgici della guerra civile. Regalerò, comunque, a Bucci e Toti ed a tutti gli altri oratori una copia de”Il sangue dei vinti”di Giampaolo Pansa in modo tale che conoscano quanto sangue innocente in quella giornata è stato sparso, anche a Genova ed in Liguria, dai partigiani con la bandiera rossa». In qualche modo, alla richiesta di Plinio ha risposto dal microfono della manifestazione il presidente Toti, spiegando che «Nel Pantheon della Repubblica ci stanno le vittime che si sono sacrificate per la libertà, non coloro che si sono sacrificati dall’altra parte. Questo deve essere chiaro. La pietà va a tutti i morti, ma la celebrazione della libertà va a chi l’ha riconquistata».

Intanto, a Villa Migone, dove è rimasta aperta e visitabile la sala della resa, Il professor Gian Giacomo Migone, già senatore della Repubblica, ha definito lo scenario che si sarebbe potuto verificare senza la resa firmata proprio nell’edificio di famiglia. Presente anche l’arcivescovo, monsignor Marco Tasca.


Questa sera, per omaggiare il 25 aprile, sulla facciata del palazzo della Regione Liguria in piazza De Ferrari saranno proiettate alcune frasi che i grandi protagonisti della cultura e della politica italiana, liguri e non solo, hanno dedicato alla lotta di Resistenza: da Aldo Moro a Liliana Segre, da Norberto Bobbio a Teresa Mattei, da Alcide De Gasperi a Cesare Pavese, solo per citarne alcuni. Frasi diverse, pronunciate da persone a loro volta molto diverse tra loro per storie e ruolo, ma accomunate da un profondo attaccamento alla democrazia e convinte della necessità di ricordare sempre il sacrificio di chi ha lottato per la libertà.

Di seguito, l’elenco delle frasi che verranno proiettate in onore del 25 aprile.

Qui vivono per sempre gli occhi che furono chiusi alla luce perché tutti li avessero aperti per sempre alla luce – Giuseppe Ungaretti.
La Resistenza fu lo scatto ribelle di un popolo oppresso, teso alla Conquista della sua libertà – Aldo Moro.
L’ispirazione fondamentale della Resistenza è stata la conquista della Libertà. Libertà per tutti e di tutti – Mariano Rumor.
La Costituzione è un buon documento; ma spetta ancora a noi fare in modo che certi articoli non rimangano lettera morta, inchiostro sulla carta. In questo senso la Resistenza continua – Sandro Pertini.
La Libertà è come l’aria: ci si accorge quanto vale quando comincia a mancare – Piero Calamandrei.
L’Italia in questo momento ha bisogno di solidarietà, ha bisogno di una nuova resistenza: la Resistenza contro le forze disgregatrici; ha bisogno di ardimento operoso contro l’anti-libertà – Alcide de Gasperi.
25 aprile. Una data che è parte essenziale della nostra storia: è anche per questo che oggi possiamo sentirci liberi, una certa Resistenza non è mai finita – Enzo Biagi.
Quel giorno, o amici, abbiamo vissuto una tra le esperienze più belle che all’uomo sia dato di provare: il miracolo della libertà – Norberto Bobbio.
Tu non sai le colline dove si è sparso il sangue. Tutti quanti fuggimmo, tutti quanti gettammo l’arma e il nome – Cesare Pavese.
Sulla neve bianca bianca c’è una macchia color vermiglio. È il sangue, il sangue di mio figlio, morto per la libertà – Gianni Rodari.
L’indifferenza porta alla violenza, perché l’indifferenza è già violenza – Liliana Segre.
I sogni dei partigiani sono rari e corti, sogni nati dalle notti di fame – Italo Calvino.
La mimosa era il fiore che i partigiani regalavano alle staffette, mi ricordava la lotta sulle montagne. Un fiore povero che cresceva ovunque – Teresa Mattei.
Senza le donne la Resistenza non sarebbe stata possibile – Mirella “Rossella” Alloisio.
Il mio sacrificio non è che un granello di sabbia di un deserto – Luciano Bolis, partigiano ricordato da una targa in piazza De Ferrari.
Quando l’ingiustizia diventa legge, la Resistenza diventa dovere – Bertolt Brecht.

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