Venticinque anni fa la tragica esplosione della petroliera Haven
Era l’11 aprile 1991, esattamente 25 anni fa, quando la petroliera Haven esplose nel mare davanti a Voltri. La petroliera in un attimo si trasformò in un inferno di fiamme e fumo lungo 344 metri e largo 50. Morirono 5 dei 36 uomini dell’equipaggio. Il giorno precedente a Livorno lo scontro tra Moby Prince e Agip Abruzzo aveva causato 140 morti.
di Monica Di Carlo
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Alle 12,40 il comanante lanciò il “mayday-mayday” e dal Porto Petroli partì il pilota Giancarlo Cerruti, che era di guardia. Nei 20 minuti che impiegò a raggiungere la Haven con la pilotina di servizio i contatti via radio col comandante Petros Grigorakakis furono continui. Grigorakasis parlava di lance di salvataggio e di immediata evacuazione, invocava il salvataggio con gli elicotteri. Quando la pilotina arrivò in prossimità della poppa della Haven il boato di un’esplosione al centro nave lacerò l’aria mentre pezzi di lamiera volarono in tutte le direzioni. In quel preciso istante il comandante cessò di parlare, stroncato da uno di quei pezzi di ferro roventi, mentre ancora stava cercando di coordinare i suoi uomini per salvare le loro vite. Alla fine fu addossata proprio a Grigorakasis la responsbilità di tutto e la compagnia si scrollò di dosso ogni conseguenza. Col comandante morirono Ioannis Dafnis, Domingo Taller, Gregorio Celda e Serapion Tubonggan. Gli altri furono tirati in salvo dalla pilotina, dai rimorchiatori e, in un secondo momento, dagli ormeggiatori. Tutti erano coperti di viscido e nerissimo “crude oil”, tanto che fu difficile issarli a bordo mentre, tra l’altro, le esplosioni continuavano, la colonna di fumo si faceva sempre più alta e le lingue di fuoco sembravano immense.
Le cisterne dilaniate dallo scoppio riversarono in mare petrolio in fiamme e se così non fosse stato per la costa ligure sarebbe stato un disastro ambientale ancora più grave. Gran parte del carico, infatti, bruciò in questo modo, prima furiosamente, poi lentamente, mentre il relitto era già stato trascinato al largo di Arenzano. Le cisterne potevano contenere 283.626 metri cubi di idrocarburi. Al momento dell’esposione la Haven ne conteneva 140 mila dei quali 90 mila, per fortuna, bruciarono. Il crude oil era stato imbarcato a Karag Island, in Iran.
Le petroliere sono, paradossalmente, tra le navi più sicure perché nelle cisterne hanno un sistema di autospegnimento degli incendi per soffocamento da gas inerti che sostituiscono l’ossigeno e quindi non permettono la combustione. Le bulk carrier, navi da carico di merci rinfuse, che trasportano grano (che ai più può sembrare il materiale più innocuo) sono paradossalmente molto più a rischio. Ma quel giorno accadde l’imponderabile e furono proprio le valvole del gas inerte le responsabili, a causa di un errore umano. La chiusura delle valvole ordinata dal primo ufficiale (responsabile del carico) al “tanchista” (il sottufficiale che coadiuva il “Primo”) causò una sovrappressione durata 70 minuti che determinò cedimenti strutturali e l’ emanazione di scintille che innescarono i primi incendi e le esplosioni che si propagarono a catena per giorni. Il “primo” negò la circostanza, mentre il tanchista la confermò. I rilievi sul relitto misero in luce che le valvole erano, in effetti, chiuse.
Nel 1988 la nave era stata colpita nel golfo Persico da un missile sparato da una nave da guerra iraniana, riportando gravi danni allo scafo. Fu riparata tra il 1988 ed il 1990 a Singapore. Una volta rimessa in sestro, la turbonave Amoco Milford Haven (nel frattempo passata di proprietà da Amoco, che l’aveva fatta costruire nel 1973, alla Troodos Shipping, dell’armatore cipriota Lucas Haji-Ioannou e di suo figlio Stelios) fece un solo viaggio e arrivò dall’Iran a 6 miglia al largo del Porto Petroli di Multedo. Lì, all’isola galleggiante, scaricò parte del carico. Dopo la discarica, quando la nave era ormai in rada, fu necessario equilibrare il carico per permetterle di navigare in stabilità. Dalle cisterne di prua il “crude oil” doveva passare in quelle a centro nave, ma qualcosa non funzionò. Fu probabilmente il malfunzionamento di una pompa a far saltare in un sol colpo cento metri di coperta proprio dalla parte della prua. Durante la notte le fiamme si vedevano distintamente dalle alture e i genovesi la guardavano dai balconi e dai terrazzi, terrorizzati. Nel frattempo la super petroliera si era allontanata in direzione di Savona e il giorno l’ammiraglio Antonio Alati, direttore marittimo della Liguria comandante del porto di Genova, prese la decisione di trascinarla verso un tratto di mare tra Arenzano e Cogoleto. Gli uomini del rimorchiatore Istria e la motobarca dei vigili del fuoco, imbrigliarono con un cavo d’acciaio l’asse del timone della petroliera allungandolo con uno spezzone di cavo che passò all’Olanda, un rimorchiatore molto potente. Marinai e pompieri rischiarono la morte per asfissia perché la nave era rovente ed emanava calore terribile. Come i rimorchiatori cominciarono a tirare, la prua, indebolita dalle esplosioni, si staccò di netto e affondò, poggiandosi sul fondale a oltre 450 metri di profondità. La nave era ridotta ormai a un relitto. Quello che restava a galla cominciò ad essere trascinato mentre la petroliera, ancora in fiamme, scricchiolava e guaiva. L’inclinazione continuava ad aumentare e a inabissarsi mentre il mare diventava sempre più mosso.
Il resto del relitto continuò a bruciare per due giorni al largo di Arenzano. La mattina del 13 aprile il calore dell’incendio provocò l’esplosione delle cisterne più lontane. Alati, già sessantaduenne, quindi uomo d’esperienza, seppe osare. Era stato aiutato per due giorni da una leggera brezza da nord (che impedì al fumo di investire la costa) e dal mare piatto, due giorni durante i quali le panne posizionate per arginare la marea nera funzionarono alla perfezione. Ma quando il vento e girò a Libeccio e subito rinforzò chilometri di panne inzaccherate rischiavano di arrivare a riva con tutto il petrolio che invece dovevano fermare. Alati lavorò duramente per contenere il petrolio fuoruscito in mare, ma alla fine non riuscì a evitare che alcune spiagge fossero coperte dalla marea nera. Era però riuscito a portarla su un fondale relativamente poco profondo, dove era possibile la bonifica. Sull’inquinamento e la bonifica si innescarono in seguito infinite polemiche che non stiamo qui a ricordare, alcune delle quali non accennano a sopirsi. C’è chi persino chi continua a sostiene che il relitto della nave continui a rilasciare inquinanti.
La petroliera (o, meglio, il troncone che era ancora a galla) si inabissò dopo l’ennesima esplosione il 14 aprile alle 10,05 dopo un’agonia di 72 ore e ora giace su un fondale di 80 metri. Il relitto ha la coperta a quota -54 metri, e il castello di poppa si eleva fino ad una profondità di 36 metri, che corrisponde circa al livello a cui è stato tagliato il fumaiolo, che rappresentava un pericolo per la navigazione.
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La Haven aveva tre gemelle. Tutte avevano fatto prima di lei più o meno la sua stessa fine: la Amoco Cadiz, affondò il 16 marzo 1978 di fronte alle coste bretoni perdendo in mare 230.000 tonnellate di greggio; la Maria Alejandra, esplose l’11 marzo 1980 di fronte alle coste della Mauritania; la Mycene, era esplosa il 3 aprile del 1980 di fronte alle coste della Sierra Leone.
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Tra il 1991 e il 1992 nell’ambito delle attività di messa in sicurezza del relitto Haven da parte dell’ Ati Eni Iri, incaricata delle attività di disinquinamento, viene eseguita dalla società Saipem una ricognizione del relitto al fine di accertare la presenza di idrocarburi allo stato liquido. La ricognizione si conclude escludendo la presenza di idrocarburi liquidi nelle cisterne del carico e nelle due casse nafta principali del motore propulsore. Inoltre vengono asportate dal relitto l’alberatura e la ciminiera con lo scopo di rimuovere gli ostacoli alla navigazione presenti nei primi 30 m di profondità.
Tra il 1995 e il 1999 per poter accedere in condizioni di sicurezza nel locale pompe per effettuare accertamenti predisposti dal Collegio dei Periti, sono asportate dal relitto due rampe di scale di accesso (acquisite come reperti dall’Autorità Giudiziaria, unitamente ai bulloni di fissaggio). In occasione di tali accertamenti si rileva la presenza di acqua notevolmente torbida all’interno del locale pompe.
Nel 1995 l’Autorità giudiziaria predispone, inoltre, una serie di prospezioni e rilevamenti peritali nell’ambito dei procedimenti penali riguardanti l’incidente Haven. Sempre in questo periodo si procede al recupero di modeste quantità di idrocarburi migranti intrappolate nelle strutture del cassero di poppa.
Nel 1997 la Regione Liguria commissiona all’Università di Genova programma per la valutazione dell’inquinamento chimico lungo la costa ligure.
Tra il 2000 – 2001 la Regione Liguria commissiona all’Università di Genova valutazione dell’inquinamento chimico prodotto dall’ affondamento della Haven mediante l’utilizzo di bioindicatori.
Nel 2004, tredici anni dopo il naufragio le conseguenze del più grande disastro navale del Mediterraneo, anche se limitate grazie a una tempestiva ed efficiente gestione dell’emergenza, non si erano ancora del tutto esaurite. Piccole quantità di idrocarburi fuoriescivano saltuariamente dal relitto principale ed erano ancora presenti in una vasta area di fondale numerose deposizioni di catrame. Si era reso così necessario un intervento di bonifica finanziato con i fondi del risarcimento trasferiti dal Ministero dell’Ambiente alla Regione Liguria. L’obiettivo era quello di eliminare il rischio di fuoriuscita di idrocarburi e oli (combustibili e lubrificanti), causato dalla corrosione dei materiali e dal cedimento delle strutture del relitto stesso.
La Haven è sottoposta a regime di area protetta dalla capitaneria di porto di Genova e alla relativa ordinanza n. 305 del 28 settembre 1999, che regola le immersioni sul relitto e l’accesso e prevede la possibilità di immergersi, se in possesso del brevetto corrispondente alla propria quota di immersione, solo ed esclusivamente con barca d’appoggio accompagnati da una guida iscritta al registro della Regione Liguria. Lo scafo si presenta oggi ormai completamente colonizzato da una ricca fauna bentonica.
Nel corso dei 25 anni passati in immersione, il ripopolamento ha raggiunto il suo punto di stabilizzazione tra le specie bentoniche. Il relitto giace in assetto di navigazione ed è interamente visitabile, sia in lunghezza che in penetrazione (7 ponti, tra i 40 e 75 metri, e l’intera area della sala macchine, dai 65 m). Vale però la pena ricordare che il numero dei sub morti in immersione sulla Haven e ben più grande di quello degli uomini dell’equipaggio che sono morti per le esplosioni l’11 aprile di 25 anni fa.
I video, tratti da youtube sono, nell’ordine, di Luciano D’Amato, Tiberio Casali e del sito della Regione Liguria
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