Cinema, i manoscritti volano, le correzioni restano. Il lavoro dell’editor in Genius
di Mauro Traverso
critico cinematografico
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In una piovosa giornata del novembre 1929, Maxwell Perkins, per tutti Max, sta lavorando nel suo ufficio della Charles Scribner’s Sons, venerabile casa editrice di New York, nota fin dalla fine ell’800 per aver scoperto e pubblicato scrittori come Henry James e Edith Wharton. Non era stato lui a scoprirli, lui era arrivato dopo e ci faceva l’editor. Sta, con l’aiuto di una matita rossa, correggendo bozze: la leggenda narra che in quella precisa giornata stesse correggendo quelle di Addio alle armi, terzo romanzo di un giovanotto promettente di nome Ernest Hemingway, di cui aveva già curato l’editing dei primi due.
Nell’ufficio ci sono soltanto due rumori; quello della pioggia sulla finestra e quello della matita sui fogli. Cancellature, per lo più. Qualche sottolineatura, qualche nota a margine ma, per lo più, cancellature. Da buon ex giornalista a Max piace la roba stringata, si è messo in testa, pensa tu, che possa essere addirittura il futuro della letteratura americana. Per qualche strano motivo tiene il cappello in testa.
E comunque, quali che siano le bozze che sta correggendo, entra nel suo ufficio un impiegato della casa editrice che posa una robusta risma di fogli dattiloscritti sulla sua scrivania.
– Dovresti leggere questo, Max
– Ti prego, dimmi che è scritto a interlinea 2.
‘Questo’ era Angelo, guarda il passato, con ancora il suo vecchio titolo di O lost, primo romanzo di Thomas Wolfe, per tutti Tom.
Max lo legge: lo legge in ufficio, in treno mentre torna a casa, dentro la cabina armadio di casa sua, trovando le stanza agibili occupate da moglie e figlie, in pigiama prima di andare a dormire. Per qualche strano motivo tiene sempre il cappello in testa.
Incontra per la prima volta Wolfe il 2 gennaio del 1930 e gli comunica che la sua casa editrice vorrebbe pubblicare il libro.
Genius, opera prima di Michael Grandage, regista inglese di ventennale carriera fin qui teatrale (molto Shakespeare, molta opera lirica e un pizzico di musical e di O’Neill negli ultimi anni, in America), comincia dunque più o meno così: con un elogio della testo letterario. Che ci crediate o no, il vero protagonista di questo primo scorcio di film è la risma di fogli. E, anche se può essere bibliofilia latente di chi scrive, lo resta per l’intera storia.
Ovviamente il film parla anche di altro: anzi, forse soprattutto di altro. Narra della relazione tra Perkins e Wolfe, naturalmente. Ed essendo Max Perkins e Thomas Wolfe interpretati, rispettivamente, da Colin Firth e Jude Law non sto neanche qui a dirvi quanto siano bravi. Quanto sia bravo Firth a rendere la dedizione umanissima e al tempo stesso impiegatizia, appassionata e tuttavia figlia anche del senso del dovere, di Perkins alla letteratura. E quanto sia funambolico Law nel nel portare ben al di qua dello schermo tutta la magniloquenza e la fluviale, quasi autodistruggente, passione di Wolfe per la vita, per quella sotto forma di scrittura più di tutte. Metteteci anche che avete Laura Linney e Nicole Kidman nei ruoli delle rispettive compagne e avrete il quadro completo della struttura spettacolare della produzione: cinque stelle extra lusso, più di un momento di recitazione super, ogni singola battuta pronunciata al meglio, non un momento di suspence, di ironia, di pathos gettato al vento.
Però questa parte, un po’ duole dirlo ma è così, è anche la più convenzionale, quella dove il fatto di avere un esordiente dietro la macchina da presa paga pegno. Tutto filmato correttamente, intendiamoci, è pur sempre Hollywood in azione, per di più alle prese con una storia che riguarda i suoi classici. Pur tuttavia il film si poggia ogni tanto su momenti melodrammatici che, più che rallentare, sembrano proprio fermare il racconto, arenarlo in una deriva sentimentale che probabilmente rispetta la vera storia avvenuta, fatta anche di di ferite e tradimenti e momenti difficili e intensità affettive, ma che alla fine finisce soltanto per mandare ‘fuori fuoco’, se si può dir così, il vero e vivo nucleo narrativo del film, quello appunto, che riguarda il testo scritto.
Un testo scritto ha una forma? Non si intende qui una forma letteraria, quella legata all’uso di sintassi, lessico o grammatica. Non è una questione di stile ma proprio di sembianze: un testo manoscritto con spaziature enormi tra una riga e l’altra rimane lo stesso testo se viene dattiloscritto a interlinea 1? Un testo che porta ancora sanguinanti i segni di matita dell’editor è lo stesso che vediamo avvolto in una rassicurante copertina? Se da un testo che, in manoscritto originale, è più di cinquemila pagine si giunge a un’edizione finale di poco più di mille, il lavoro dell’editor è raffinazione o deformazione? Strutturamento o mutilazione? Pulitura o cancellazione? Si è buttato via soltanto l’acqua sporca dell’ego autoriale o anche il bambino della naturalità dello scrittore? Tutti questi interrogativi sono nel film e, anche se può essere bibliofilia latente di chi scrive, ne sono di gran lunga la parte migliore, la più efficacemente esposta, la più convincente, la più rivelatrice, con tutte quelle pagine scritte in forma di pacco avvolto con lo spago, di fogli svolazzanti per la stanza, di pagine appoggiate al bancone di un bar, a un muro, a un frigorifero, lette in treno, in mano camminando, su una scrivania, dentro una copertina, su un marciapiede ferroviario.
Ne consegue, per esempio, anche l’interrogativo che anima il personaggio di Aline Bernstein, compagna di Tom Wolfe, bene interpretato da una Nicole Kidman nella sua puntigliosa, possessiva pazzia d’amore: se non si sa più se il testo è dell’editor o dell’autore, di chi è lo scrittore? Della donna che lo ama, seppure un po’ perversamente, o dell’uomo che ci lavora tutte le notti per due anni? Non è una questione di sesso, naturalmente, ma proprio di identità: uno, Max Perkins, nei testi ci si è trovato, si è messo il cappello e ci ha costruito una vita, l’altro, Tom Wolfe, nei testi ci si sta perdendo fino alla malattia. Tutte quelle ‘sue’ parti cancellate ( la parte convincente del film: per essere considerato uno scrittore accetta di ‘farsi correggere’ ) lo porteranno a rifiutare chi gli vuol bene ( parte convenzionale del film: la ribellione del ‘vero scrittore’ verso chi tocca il suo testo, la sua vita, dimentico del fatto che anche quelle correzioni ne hanno fatto un ‘vero scrittore’ ).
E dunque, alla fine, se amate i film che provano a rinnovare il linguaggio cinematografico, gli sguardi nuovi sul mondo, i significanti movimenti della macchina da presa, state pure a casa, Questo film non fa per voi.
Ma se amate leggere e se vi piace scrivere, e se volete sapere come va a finire la storia del cappello di Maxwell Perkins, per tutti Max, allora credetemi: non spenderete i soldi di un biglietto in maniera migliore.
Può essere bibliofilia latente di chi scrive ma quella risma di fogli dovrebbe vincere l’oscar come best supporting actor, l’anno prossimo.
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