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La chiesa scomparsa e il “mistero” dell’arcangelo proibito nell’affresco oggi esposto nella mostra sul Medioevo a Sant’Agostino

Tracce del passato tornano a parlarci della Genova medioevale, quella che aveva fitti rapporti con l’Oriente. È il caso dell’affresco con scene della vita di San Giovanni attualmente visibile nell’interessante mostra “Genova nel Medioevo. Una capitale del Mediterraneo al tempo degli Embriaci”, ospitata dalla chiesa di Sant’Agostino. Per secoli l’affresco ha ornato le pareti delle chiesa convento di San’Andrea, collocata tra Porta Soprana e l’area dove adesso c’è la Borsa Valori, in cima a via XX Settembre.

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di Monica Di Carlo

Facciamo un passo indietro: per costruire il palazzo novecentesco che si affaccia su piazza De Ferrari è stato spianato un colle che ospitava il complesso del monastero delle monache Benedettine di Sant’Andrea, risalente al XII secolo, poi espropriato ed adibito a carcere. Prima ancora era un bosco e un cimitero, di quelli che i Liguri in generale e i Genuati in particolare realizzavano proprio nei boschi.

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Quel colle non molto elevato della nostra città che s’intitola a Sant’Andrea, ed allato al quale vedemmo fervere il lavoro di demolizione e di spianamento per aprire il varco alla nuova ed ampia via XX Settembre, era in tempi remotissimi un bosco o lucus sacro al riposo dei trapassati

Questo scriveva nel 1901 Francesco Podestà, pittore e studioso di storia locale.

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Prima della demolizione e dello spianamento della collina dal piano di Sant’Andrea partiva un vicoletto che conduceva all’antico convento e alla chiesa, situata al limitare della collina del Brolio, appunto quella spianata alla fine del XIX secolo. Ci fu qualcuno che cercò di opporsi alle speculazioni immobiliari (che, bisogna riconoscerlo, all’epoca si facevano meglio che in tempi recenti, creando, almeno, edifici di pregio) e fu un portoghese, Alfredo D’Andrade. Cliccando sul link sottistante potrete leggere chi era e quanti monumenti genovesi abbia salvaguardato, anche se l’idea di salvaguardia dell’epoca non era esattamente come quella attuale. Infatti, D’Andrade aggiunse i merli a Porta Soprana (appunto la porta di Sant’Andrea), a Torre Embriaci e Porta dei Vacca, oltre a un ordine di colonne e il tetto a punta al campanile della chiesa di San Donato. Fu sempre lui che rimaneggiò la “Sala del Capitano” a Palazzo San Giorgio. Qui, maggiori informazioni https://genovaquotidiana.com/2015/11/13/genova-dimentica-luomo-che-cambio-lo-skyline-della-citta-mettendo-i-merli-alle-torri/

chiostro di Sant'Andrea

Al tempo delle demolizioni Alfredo d’Andrade (allora direttore dell’ufficio regionale per la conservazione dei monumenti del Piemonte e della Liguria e poi anche rappresentante del Ministero della Pubblica Istruzione nella trattativa relativa alla cessione delle carceri) si oppose con tutte le forze al progetto del consiglio comunale di Genova, quest’ultimo per buona parte intenzionato a portare a termine il restyling della zona (sostenuto peraltro anche da una forte campagna stampa a favore della demolizione). Nei suoi rapporti al ministero, D’Andrade scrisse chiaramente che la demolizione non sarebbe stata dovuta a motivi di igiene o di pubblica utilità, ma solo per tentativi di effettuare una speculazione edilizia. Non riuscì a salvare chiesa e convento, ma grazie a lui possiamo ammirare ancora il chiostro,  smontato e dopo molti anni ricostruito nel 1922 vicino alla casa di Colombo.

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Il monastero di Sant’Andrea fu costruito agli inizi del XI secolo vicino al varco orientale delle mura dette “del Barbarossa” (in realtà costruite contro un suo possibile assalto che, però, non si verificò), detta Porta Soprana o, appunto, Porta di Sant’Andrea (tutte le porte avevano un nome laico e un nome religioso). Da subito, come testimoniano documenti del 1.109, fu dedicata all’apostolo Andrea e detta “de Porta”. Sia il monastero sia la chiesa romanica furono ampiamente rimaneggiati tra il Cinquecento e il 1620 e l’assetto definitivo, quello che si presentava al momento della demolizione, venne raggiunto solo nel 1700. D’Andrade non riuscì a salvare chiesa e convento dalla distruzione (anche a causa di una campagna di stampa che premeva per le demolizioni), ma riuscì a far vincolare il chiostro facendo includere nel contratto di vendita dal Ministero al Comune la clausola secondo la quale doveva essere ricomposto vicino al luogo dove si trovava e inserito in un giardino.

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(Le suggestive immagini del chiostro durante il Ghost Tour di ottobre durante una rappresentazione di figuranti)

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Così fu, appunto, solo nel 1922, sette anni dopo la sua morte. Nel frattempo, il chiostro vagò da Sant’Agostino a Villetta Di Negro, nonostante il D’Andrade avesse continuato a insistere finché ebbe vita segno che, da immigrato quale era, amava Genova più dei genovesi del tempo.

L’ordine inferiore del chiostro si sviluppa su un impianto rettangolare mentre l’elevato è scandito da una serie regolare di colonnine binate (11 sul lato lungo e 5 sul lato minore), raggruppate in corrispondenza degli angoli, che sorreggono archi a sesto acuto. Le trentadue coppie di capitelli costituiscono l’elemento caratterizzante della composizione poiché presentano una gamma di soluzioni figurative di notevole pregio ascrivibili ad un intervallo temporale compreso tra il 1100 e la fine del XIII secolo. La fase più antica, localizzata nei lati sud e ovest, è sempre risolta con un motivo decorativo neocorinzio di base a foglie d’acqua e volute angolari che racchiudono di volta in volta fiori, foglie, protomi umane, pigne e rosette su cui si innesta la rappresentazione di scene di vita quotidiana sul lato occidentale (l’aratura, il pascolo, il lavoro con animali da soma) e a tema sacro nel lato sud (Adamo ed Eva, Daniele nella fossa dei leoni) La parte duecentesca che contraddistingue gli altri due lati presenta motivi vegetali alternati a volute, grappoli e fiori, con presenza di decorazione zoomorfa e fitomorfa anche alla base delle stesse colonnine. Gli angoli del chiostro vengono rimarcati da raggruppamenti di colonnine trattati con motivi decorativi neocorinzi associati a raffigurazioni sia di scene tratte dal Nuovo Testamento che di vita agreste.

(Tratto da “Cultura in Liguria”http://www.culturagenova.it/cultura/it/Temi/Luoghivisita/architetture.do?contentId=28748&localita=2080&area=209 )

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Da Sant’Andrea della Porta, come spiega il conservatore del Museo di Sant’Agostino, Adelmo Taddei arriva l’affresco (tre scene del ciclo della Storia di San Giovanni) recuperato da un muro durante le demolizioni all’inizio del Novecento. Non si sa se venga dalla chiesa o dagli ambienti conventuali, ma si può datare ai lavori del 1294. Questo brandello di racconto è una testimonianza importante di quanto Genova all’epoca fosse vicino all’Oriente, tanto da dipingere su muri sacri un personaggio che non viene dalla tradizione occidentale, ma piuttosto da quella cristiana copta egiziana che poi passa da Bisanzio e finisce nel mondo slavo. L’arcangelo Uriele, che non è uno dei tre citati da Bibbia e Vangeli (se non quelli considerati apocrifi). <Nel 735 un conclio indetto da papa Zaccaria decide che tutti gli arcangeli non citati nelle scritture canoniche per la Chiesa occidentale sono in realtà figure demoniache e quindi queste scompaiono dall’iconografia per ricomparire a Genova molti anni dopo – spiega Taddei -. Uriele si trova nei mosaici delle grande chiese normanne in Sicilia, ma nell’arte del nord non lo si trova. Compare a Parma, nella cupola del battistero, una ventina d’anni prima e, quindi, nella stessa identica iconografia, nella pittura genovese>. Uriele compare nella scena in cui l’arcangelo accompagna Giovannino nel deserto. Attualmente l’affresco è visibile, come si è detto, nell’interessante mostra “Genova nel Medioevo. Una capitale del Mediterraneo al tempo degli Embriaci” nella ex chiesa di Sant’Agostino. Ne parla in questo video proprio Taddei.

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Uriel o Uriele o (אוּרִיאֵל, “Luce di Dio” nella lingua ebraica) è uno degli arcangeli della tradizione ebraico-cristiana.  Gli angeli menzionati nei libri più antichi della Bibbia Ebraica sono senza nomi. Effettivamente, il rabbino Simeon ben Lakish di Tiberiade (230-270), asserisce che tutti i nomi specifici degli angeli vengono riportati dagli Ebrei di Babilonia e alcuni critici moderni tendono ad acconsentire. Dei sette arcangeli del giudaismo post-esilio, solo tre, Gabriele, Michele e Raffaele, vengono menzionati per nome nelle scritture che gradualmente diventano accettate come la Bibbia canonica (solo il secondo è però definito come arcangelo, mentre gli altri come semplici angeli). Gli altri quattro, tuttavia, vengono nominati nel capitolo XXI del Libro di Enoch (II secolo a.C.): oltre a Uriel, sono Raguel, Sariel e Remiel.

Dove i quattro arcangeli erano aggiunti ai nomi dei tre, per rappresentare i quattro punti cardinali, Uriel generalmente rappresentava il quarto.

Uriel compare anche nel Secondo Libro di Esdra, un’apocrifa aggiunta nella tradizione della Letteratura Apocalittica creata da Esdra, nella quale il profeta Esdra pone a Dio una serie di domande, e Uriel viene inviato da Dio per istruirlo. Uriel è spesso identificato come il cherubino che “sta a guardia dei cancelli dell’Eden con una spada fiammeggiante”, o come l’angelo che “veglia sul tuono e il terrore” (1 Enoch). Nell’Apocalisse di Pietro (greca) appare come l’Angelo del Pentimento, rappresentato come se fosse senza pietà come un qualsiasi demone. Nella Vita di Adamo ed Eva, Uriel è visto come uno dei cherubini del terzo capitolo della Genesi. Egli è anche comunemente identificato come uno degli angeli che aiutarono a seppellire Adamo e Abele in Paradiso.

Secondo le tradizioni della mistica medievale ebraica, Uriel è diventato l’Angelo della Domenica, Angelo della Poetica e uno dei Sacri Sephiroth. Fu lui a lottare con Giacobbe a Peniel ed è raffigurato come l’angelo che decimò l’esercito del re assiro Sennacherib. Egli dice a Noè dell’avvento del Diluvio che viene descritto nel Libro di Enoch.

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