La Pigalle genovese tra Soziglia e Castelletto
Le prostitute finanziarono le opere del porto con le tasse pagate
La nave del sesso di Giovanni Andrea Doria
Le pietre delle case dei postriboli abbattuti per fare posto a Strada Nuova (poi via Aurea, infine via Garibaldi) furono usate per costruire la cupola della chiesa della chiesa dell’Assunta in Carignano
Nel 1452 il doge Pietro II Fregoso impose una multa per chi molestava le meretrici in luogo pubblico
Si dice che sia il mestiere più vecchio del mondo ed è indubitabile che le città di mare siano quelle dove l'”offerta” è più sostanziosa. Insomma, è la vecchia storia del marinaio con una donna in ogni porto, solo che intorno al 1300 non era poi così facile convincere una ragazza a fare la fidanzata “a tempo”, giusto per il periodo in cui si rimaneva a terra per poi, magari, non tornare mai più. Così, a Genova, tra Medio Evo e Rinascimento, fiorirono i postriboli. Si insediarono nella periferia della città, nell’area denominata “Montalbano”, ai piedi della collina di Castelletto. L’area era cintata, chiusa e sorvegliata e si sviluppava attorno a una piazzetta centrale con pozzo e osteria. Era una vera e propria Pigalle ante litteram, insomma. L’area era quella dove in epoca romana si svolgevano i baccanali, le feste in cui ogni decenza era sospesa a favore di fiumi di vino e sesso libero.
Il “bordello Castelleti” è citato in un documento del 1339, e, secondo il professor Ennio Poleggi (studioso dell’urbanistica della città antica e riscopritore del sistema dei Rolli) , era esattamente situato in un’area comunale compresa tra il Fonte Maroso (piazza Fontane Marose) e la chiesa della Maddalena a monte di Soziglia, sotto il forte Castelletto costruito più o meno depo l’assalto dei Saraceni, nel X secolo, che si trovava dove adesso è la spianata.
Sulle prime si trattava di baracche che poi divennero case. All’inizio, le prostitute non potevano uscire dal loro ghetto che di sabato, tranne nel caso in cui fossero gravemente malate, poi fu concesso loro di andare persino in chiesa, a condizione che sparissero prima delle messa solenne della V ora. Le meretrici non potevano <profferire bestemmie, contumelie od ingiurie> (ci si domanda, a questo punto, se invece le “donne oneste” potessero farlo) nè tantomeno <attaccar brighe o risse, pel che saggiamente si vietavano l’armi> (dagli atti della Società di Storia Patria).
Dovevano anche pagare una decima di cinque soldi al giorno da pagare mensilmente. Nel 1418, era stata costituita una vera e propria unità di riscossione delle “decime” che bussava alla porta dei bordelli, ma troppo di quel denaro pare rimansesse in tasca agli incaricati e così la Repubblica decise per il forfait, che andava a scalare solo in caso di malattia comprovata. La tassa si pagava al Podestà appositamente nominato che, nel caso in cui fosse scoperto a trattenere per sè parte della cifra, doveva pagare una multa pari al doppio del balzello giornaliero imposto alle prostitute.
Dalla zona di Montalbano non potevano uscire nè le donne nè i loro “manager”, i mezzani. Non potevano scendere al porto e salire sulle navi ormeggiate, dove avrebbero trovato lavoro a bizzeffe creando però, “disordine” nelle ciurme. Tantomeno, potevano varcare le porte dei cimiteri
Nel 1461 <vietavasi alle femmine di perduto onore, che sempre dovevano essere forastiere, l’indossare abiti e fogge all’usanza delle donne genovesi> per evitare che si confondessero nella folla.
Chi contravveniva alle regole finiva in carcere, veniva condannato alla pubblica fustigazione e, ovviamente, dovevano pagare sostanziosa multe in denaro, <che s’applicavano all’opera del Porto e del Molo>, esattamente come le tasse sull’attività.
Fu il doge Pietro II Fregoso nel 1452 a imporre anche una multa anche su chi molestava “le donne pubbliche in luogo pubblico”. Chi lo faceva era anche soggetto a due giorni di carcere. Era una cosa a metà tra la dissuasione dal commettere atti osceni in luogo pubblico e il riconoscimento del ruolo e della dignità umana delle donne che si dedicavano alla prostituzione.
La notte, i bordelli erano chiusi ma, pagando, naturalmente, i clienti i potevamo restare versando un importo dai sei ai dodici denari. Anche la prostitura che voleva esercitare dopo il calar del sole doveva pagare un obolo suplettivo. D’estate di tempo ce n’era, ma d’inverno l’oscurità calava in fretta “rubando” diverse ore di lavoro. All’epoca, le ore erano 12 per il giorno e 12 per la notte, ma di lunghezza variabile a seconda del tempo in cui rimaneva la luce del giorno a rischiarare le strade. In sostanza, nella brutta stagione quelle del giorno erano molto più corte.
A un certo punto, la Repubblica decise di cancellare tutto questo. Non già per moralismo, ma per soldi. Il 17 marzo 1550 il Doge approvò la proposta dei Padri del Comune di demolire il villaggio del sesso a Montealbano per crearelì una nuova zona residenziale: Strada Nuova, poi via Aurea, infine via Garibaldi. Lì dovevano nascere le case delle ricche famiglie mercantili e borghesi che si contendevano lo spazio e facevano a gara a costruire le dimore più sontuose. Le prostitute furono spostate un nuovo quartiere appositamente costruito nella zona del Castelletto, nel frattempo semi demolito. Tuttavia, a spostarsi in quel luogo scomodo non furono inmoltissime. Mario Labò, nel 1956 sosteneva che la maggior parte delle prostitute fosse rimasta nei vicoli a valle di Strada Nuova (dove ancora si trovano le moderne colleghe). Pare, inoltre, che una parte si trasferisse al Molo.
Le pietre di risulta della demolizione dei bordelli pare si dice siano state usate da Galeazzo Alessi, lo stesso architetto che costruì molte delle ricche case di Strada Nuova, per la cupola della chiesa dell’Assunta a Carignano.
Qualche dopo, un discendente di Andrea Doria, Giovanni Andrea Doria, ebbe un’idea imprenditoriale di un certo rilievo raccontata in uno dei suoi libri da Michelangelo Dolcino: acquistò una galea battente bandiera spagnola, la ormeggiò nella darsena e allesti un bordello a bordo. Era completamente fuori dalla giurisdizione della Repubblica, sfilata al sistema della tassazione e alle regole della terraferma. Per anni i dogi che si succedettero cercarono di far chiudere l’attività, ma senza successo.
Solo nel 1716 ci riuscì il doge Lorenzo Centurione. Come?Non ci fu altro modo che pagare, e profumatamente, la nave. La Repubblica sborsò una cifra irragionevole pur di mettere la parola “fine” a quello scandalo. Il bordello si sottraeva alle regole un po’ con lo stesso sistema che recentemente qualcuno ha usato per organizzare una discoteca su un grande yacht nero evitando di dover chiedere le licenze. Qualcuno ha pensato anche ad allestire un casinò o su una nave o su una vecchia e grande gru storica che si trova in porto, ma le leggi della Repubblica (questa volta italiana) non l’hanno consentito.
Lo stesso sistema è utilizzato oggi da una nota azienda europea con sede primaria in Spagna che produce e commercializza abbigliamento che per non dover sottostare ai contratti di lavoro e alle tasse, imbarca le sarte su navi che stazionano in acque internazionali.
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