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Breve storia del ghetto ebraico a Genova

Genova nel medioevo conteneva in sé come delle “città parallele”. Di una abbiamo già parlato ed era quella delle prostitute a Monte Albano, l’altra non meno carica di significati e purtroppo anche di presagi era il “ghetto degli ebrei”.

 

Già nel 1492 gli ebrei espulsi dalla Spagna cercarono rifugio a Genova.

 

Secondo le antiche carte i genovesi si mostrarono freddi verso quegli esuli confinandoli in porto nella zona del molo, probabilmente dentro le mura di Malapaga, senza prestare loro alcun aiuto o soccorso.

In realtà ,la popolazione pur con il disappunto delle autorità, si impegnava ad aiutare quei poveracci che vissero a cielo aperto uno degli inverni più rigidi di quegli anni, 1l 1493. Molti di loro,  per avere salva la vita si convertirono mentre altri diedero i loro figli come schiavi per metterli almeno al riparo.

Per dissuadere i genovesi ad aiutare gli ebrei le autorità religiose minacciarono che con questo comportamento avrebbero fatto arrivare la peste che purtroppo ma  per ragioni del tutto estranee ovviamente, arrivò l’anno dopo.

Genova mantenne per un secolo un atteggiamento duro con gli Ebrei tanto che per un certo periodo del ‘500 vennero anche costretti a indossare un segno distintivo di riconoscimento oltre ad essere ostacolati a fermarsi in città.

Nel ‘600 però qualcosa cambiò. La decisione presa dai Serenissimi dopo la peste del 1656 fu quella di dare un impulso agli affari della città sconvolti e diminuiti drasticamente per via della pestilenza stabilendo il “portofranco” e consentendo l’inserimento degli ebrei.

Il “ghetto” venne inaugurato nel 1660 e si trovava nella zona tra via del Campo, piazzetta Fregoso e vico Untoria. Nonostante questa immissione nel tessuto sociale ed economico genovese avesse il significato di dare una spinta alla ripresa della città, gli ebrei furono confinati dietro diversi cancelli di cui solo due erano valicabili e venivano chiusi alla notte per essere riaperti al mattino dai Massari, gli incaricati a questa incombenza. Non erano molti gli ebrei segnalati ufficialmente: 203 nel 1662 e 174 nel 1669 e si occupavano di prevalentemente di commercio. I genovesi apprezzavano le qualità “affaristiche” degli ebrei ma non vedevano di buon occhio il fatto che potessero mischiarsi ai cristiani e men che meno che potessero avere degli scambi sessuali.

Nessuna amicizia tra cristiani e ebrei ma solo questioni di lavoro, questo era il diktat. La sinagoga, come ricorda Michelangelo Dolcino, doveva trovarsi nell’edificio posto all’angolo fra vico del Campo e vico Untoria dal lato di san Siro.

In questo caso c’è da spezzare una lancia nei confronti dei genovesi: persone attente agli “affari” non erano per nulla pervase dalla cultura pesantemente antisemita che attraversava l’Europa e vedeva gli ebrei in diverse città del nord ma anche della Spagna sottoposti a pesanti umiliazioni se non addirittura a ricorrenti pogrom.

 

I genovesi temperavano questi comportamenti in nome, manco a dirlo, degli affari e dei soldi ma costringevano a un appuntamento obbligatorio tutti gli ebrei residenti a Genova che era quello di ascoltare sermoni che li dovevano convincere del loro falso credo alla chiesa delle Vigne o a quella di San Siro.

 

Era qui che si esprimeva nei loro confronti lo spirito antisemita dei genovesi che accoglievano il corteo dei gli ebrei e lo salutavano tra insulti, lazzi e qualche ceffone. Dall’ascolto dei sermoni erano esentate le ragazze del ghetto perché le autorità temevano che la loro presenza avrebbe aizzato troppo la folla che si accalcava fuori dalla chiesa e questo avrebbe comportato dei pericolosi disordini.

Secondo la leggenda di allora, gli ebrei, quelli meno rassegnati a quel castigo, si mettevano la cera negli orecchi per non ascoltare le prediche. Così come per molto tempo le autorità ecclesiastiche dell’Inquisizione indagarono sugli ebrei che si erano convertiti ufficialmente al cattolicesimo ma segretamente mantenevano la loro antica fede. i cosiddetti “marrani” che principalmente arrivavano dalla Spagna ma che secondo i cristiani di allora potevano essere potenzialmente tutti coloro con cognomi di origine ebraiche anche se convertiti.

 

Gli ebrei vissero a Genova come in tutta Italia, sotto la continua pressione di limitazioni alla loro libertà e periodiche espulsioni. Per il “ghetto” dopo lo spostamento nella zona di piazza dei Tessitori nel 1674, si previde ad un certo punto nel ‘700 di spostarlo in via del Molo ma un decreto espulsivo impedì il progetto. Nella storia recente resta viva e drammatica la deportazione degli ebrei il 3 novembre del 1943 verso i campi di concentramento dei nazisti. Un’operazione che vide collaborare anche molti italiani nei rastrellamenti e nelle delazioni.

 

Molti altri italiani, invece, a rischio della loro stessa vita, si adoperarono per salvarli, nascondendoli nelle case e nelle chiese. La sinagoga di Genova, costruita nel 1935 su progetto dell’architetto Francesco Morandi si trova oggi in via Bertora a due passi da via Assarotti. Fù lì che i tedeschi nel 43’ fecero convocare una riunione di tutti gli ebrei per prenderli in un colpo solo. Il rabbino Riccardo Pacifici e i suoi figli di 2 e 4 anni insieme ad altri 50 che erano cascati nel tranello furono inviati ad Auschwitz dove morirono.

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