diritti e sociale 

Abbazia del Boschetto, ecco dove è stato girato il film “Vite non calcolate” che sarà premiato a Venezia

Firmato da Ermanno Cavazzoni e Sergio Maifredi, è stato prodotto dal Teatro Pubblico Ligure. Intervista a Marco Pirotta, responsabile di tutte le attività non solo sociali del convento di San Nicolò, a Campi, dove il film è stato girato, ispirato alle storie degli ospiti del monastero che accoglie per conto del Comune persone in emergenza abitativa e, con la collaborazione della cooperativa Agorà, ragazze madri anche sfruttate e migranti. Nel convento anche un’area-ostello per i lavoratori delle aziende. Il tutto immerso in un enorme patrimonio storico e artistico

di Monica Di Carlo

Quali sono le attività del Boschetto e in cosa consistono?

«Tutto è cominciato in occasione delle emergenze per le alluvioni che ci sono state a Genova nel 2014 – spiega Pirrotta -, dopodiché abbiamo capito che era un qualche cosa che serviva assolutamente alla città e allora abbiamo pensato di definire un’area dedicata all’emergenza abitativa e quindi a coordinarci con i servizi comunali. Noi facciamo da ponte tra l’emergenza immediata e la disponibilità della soluzione definitiva che mette il Comune. Abbiamo preso le stanze che erano le celle degli abati e dei monaci. Abbiamo preparato delle stanze con bagno e e le mettiamo a disposizione per persone singole, coppie e famiglie. Così abbiamo potuto fare questa attività di ponte, di congiunzione con ovviamente il Comune che fa da”procacciatore” di questo tipo di servizi.

Quanto si fermano, in media, le persone?

«A seconda del problema. Insomma, dipende, dipende da tante parametri che definisce il Comune. Diciamo che può essere dal mese ai sei anni».

Con e tra gli ospiti di più lungo corso si sono instaurati, immagino, anche dei rapporti?

«Assolutamente sì. E la cosa bella è proprio questa. Che cosa succede? Che poi questa struttura è un po come fosse una Macedonia, dove ci sono tante realtà differenti, famiglie differenti di culture differenti che stridono probabilmente un po tra di loro, ma che poi alla fine, come succedeva un po’ quando c’erano le case coloniche creano collaboratività. C’è un supporto reciproco e quindi quello che magari alla sera è un lamentarsi perché fai troppo rumore perché i bambini hanno fatto chiasso, domani si preoccupa per gli altri: “Ma caspita non risponde. Cosa è successo? Stai male? Vado io giù a prenderti il latte?”. E questa è proprio la situazione bella. E poi succede che quando a qualcuno viene assegnata una casa popolare e va nei casermoni tornano qui e dicono “Ma sai che io mi trovavo meglio al boschetto? Perché qui c’era qualcuno che mi salutava”. Ecco, noi non facciamo tanto di più eh, perché noi mettiamo solo i locali, gli alloggi. Non non siamo un’opera sociale, non siamo assistenti sociali, noi siamo semplicemente gli affittuari, abbiamo un patrimonio che è questo meraviglioso monastero. Noi creiamo l’alloggio e poi il resto tocca ai Servizi sociali. Poi abbiamo dei volontari, dei volontari in gamba. Uno di questi è stato un industriale che aveva deciso di andare in pensione e di dedicare tutti i suoi mezzogiorni a farsi da mangiare qui al boschetto, perché esiste una cucina aperta».

Come è strutturato il “Boschetto”?

«Legalmente abbiamo bisogno di una una definizione e la definizione è “casa per ferie”, che è come fosse un ostello, però privato, per cui viene chi vogliamo. A queste persone diciamo: “Bene, sei il mio gradito ospite, vieni quando vuoi e ti mettiamo a disposizione una cucina dove tu puoi farti da mangiare, una lavanderia dove tu puoi fare il tuo bucato, non ti facciamo noi da mangiare, non ti facciamo noi altri tipi di servizi. Questo fa sì che non abbiamo bisogno di tanto personale, riducendo drasticamente i costi. Il concetto è proprio quello di riprendere lo stile, sobrio ed essenziale, del monastero per poterlo riaprire alle famiglie. Non c’è tanta roba: un piatto, un letto, un tavolo, un frigo e un bagno. Il calore lo metti tu, come la tua famiglia, lo metti tu con la tua presenza” Questo avviene nella divisione “emergenza abitativa”. Poi ho creato, abbiamo creato come opera Don Orione, altre aree. Abbiamo capito che da soli non potevamo farlo perché noi non abbiamo una specificità culturale e storica e allora abbiamo scelto come partner la cooperativa Agorà. La cooperativa Agorà è molto importante e significativa nel mondo sociale, soprattutto qui a Genova e l’abbiamo riconosciuta essere un partner molto importante in questo settore. E allora abbiamo pensato di lavorare assieme e abbiamo preso una pezzo del monastero e gli abbiamo detto: “Ecco, in questo pezzo voi vi gestite la realtà delle ragazze madri sfruttate, magari, per la prostituzione. E allora abbiamo potuto offrire 14 camere dove ci sono 20 mamme con i loro bambini e che sono seguiti socialmente da Agorà e vivono in questo “condominio”. È uno spazio separato, perché magari i bimbi giocano nei corridoi e cerchiamo di rispettare anche le esigenze degli anziani. Quindi ci sono la divisione dove ci sono i bimbi e la divisione dove c’è l’emergenza abitativa e poi da cosa nasce cosa. Abbiamo pensato a come questo monastero è stato importante non solo per Genova, ma come elemento all’interno di una via europea: questo monastero era in un ganglio delle vie di comunicazione. Abbiamo pensato alle parole del nostro fondatore, Don Luigi Orione, che diceva che dobbiamo essere la testa dei tempi e riscoprire le povertà dell’oggi. Nel 900 noi abbiamo cercato di capire che cosa sono oggi le nuove povertà. E alla luce della presenza del monastero abbiamo pensato: “Ma caspita, ma quelli che arrivano con i barconi non sono anche loro alla ricerca di un “vallico” come era ai tempi il valico dei Giovi? E allora abbiamo pensato di dire: “Bene, visto che Genova è stata così generosa da riaccoglie di accogliere buona parte di quelli che sono stati mandati rimandati indietro dai nostri cugini (di altri paesi europei n. d. r.), allora abbiamo pensato di dare la nostra disponibilità e 25 di loro sono ospitati in un’area dedicata per loro, sempre coadiuvati dalla Cooperativa Agorà. Quindi abbiamo la divisione delle mamme con bambini, abbiamo la divisione dei profughi arrivati coi barconi. E però. Ci mancavano ancora di fare un po’ di soldi, un po di fatturato. Perché? Perché i costi sono veramente tanti, anche perché, capite, che questo è un monastero, non abbiamo i pannelli isolanti, gli impianti di alta tecnologia, quindi abbiamo grossi costi energetici e grossi costi anche gestionali. Allora abbiamo pensato di prendere un altro pezzo del monastero, visto che gli spazi non ci mancavano, e di dedicarlo ai lavoratori. Abbiamo preso quest’area e l’abbiamo pensata come fosse un ostello. Nella parte emergenza abitativa, quando uno entra, come minimo ci deve stare un mese, perché è una residenzialità. Invece il lavoratore deve seguire l’attività lavorativa, che magari è di una settimana o tre settimane a cavallo tra un mese e l’altro. E allora li facciamo proprio un accordo con le aziende, le quali prenotano le camere da settimana a settimana. Quindi di fatto noi abbiamo una rapporto diretto con l’azienda che ci dà anche una garanzia economica e paga sicuramente. Non è la persona che viene poi non ha i soldi e dice “Mi dispiace, non ho soldi”. E io cosa faccio? Ti dico eh vabbè, pazienza? No. Invece alla società dico: “Bene, io ti do l’opportunità di avere un posto che costa molto meno che un albergo. È sempre sobrio. Le saponette e gli asciugamani te li porti te da casa. Perché? Perché così sprechiamo meno soldi, meno detersivi e meno cose e tu puoi risparmiare OK? E quindi puoi combattere contro le grosse multinazionali che monopolizzano il mercato e quindi, come nello spirito di Don Orione, cercare di creare delle opportunità per le piccole società che possono quindi essere competitive nel mondo del lavoro”.

Voi avete anche uno straordinario patrimonio architettonico, artistico e storico. L’iniziativa della giornata di apertura con le guide turistiche, finanzierà dei cartelloni esplicativi. È corretto? Questo posto è visitabile? E se uno vuole visitarlo, come può farlo?

«È corretto. Il posto è sempre aperto, ma e chiuso da una serratura per evitare che ci siano atti vandalici e così via. Quindi chiunque voglia venire, basta che avvisi una telefonata e per noi apriamo i cancelli e può liberamente condividere e godere di questo patrimonio. Se viene una classe mi rende ancora più felice e posso offrire ai bambini e ai ragazzi il tè con i biscotti come abbiamo fatto nella giornata di apertura dell’Associazione delle guide turistiche. E magari si visto che sono dei ragazzi anche qualche caramella o un pezzo di focaccia che qui è così veramente buona.


Ci sono anche delle cose da restaurare, giusto? Ad esempio gli affreschi. Ecco, avete un qualche progetto? Volete lanciare un appello?

«Allora, devo essere sincero. Vedo questa struttura come una medaglia coniata su due facce, il cui valore è l’insieme delle due facce, per cui da una parte abbiamo la parte artistica nella quale l’opera di Don Orione ha messo più di un milione di euro per tenerla in piedi e abbiamo la parte sociale che ha delle necessità. Anche solo di far arrivare l’acqua potabile che ora arriva, ma scarseggia. Allora io posso dire che ci sarebbero da rifare i tubi che portano l’acqua. Ma abbiamo anche delle vetrate stoiriche che si sono rotte che non siamo riusciti a sostituire dove abbiamo messo un tampone in policarbonato per proteggere l’interno, però sarebbero da restaurare. Non si può pensare che il pubblico intervenga perché non è una banca, non è un pozzo che ha i soldi da dare. No, il mio slogan è che il bene inteso nella sua totalità, sia culturale sia sociale, deve girare su tre pilastri. L’istituzionale che ne garantisce la legalità; l’Istituto – gli enti privati, come potremmo essere noi come ente Don Orione, che abbiamo il patrimonio privato messo a disposizione-; il privato che sono tutte quelle realtà industriali o anche quei grandi professionisti che hanno fatto reddito e che quindi hanno la possibilità, magari, di dedicare parte dei loro profitti come sgravio fiscale. Eventuali fondi si possono utilizzare per fare delle opere di miglioramento o dalla parte sociale o dalla parte artistica, storica e architettonica, a seconda delle inclinazioni di chi concede il denaro. Perché la cosa bella è proprio questo, che il bello non è una cosa, il bello è l’armonia di tutte queste cose messe insieme. Il bello di questo monastero non è la chiesa, ma è la chiesa con il suo, col suo chiostro, con le sue sale, il bello della parte sociale. Lavoriamo bene con il Comune nell’accoglienza dell’immigrazione. Ma, insieme a questo, ci sono il supporto alle famiglie genovesi e alle mamme sfortunate. Questo è il bello e questo è quello che è nel cuore di Don Orione, nello stesso modo se si è gente di fede o gente liberale. Si può lavorare benissimo puntando lo stesso obiettivo».

Più volte qui si sono tenuti spettacoli teatrali per la regia di Sergio Maifredi, che è un regista bravissimo. Cosa è successo in proprio in questo chiostro?

«È successo che il grande Sergio, venendo qui, è stato chiamato dalla Comune perché il Comune voleva rivalutare questo luogo con uno spettacolo teatrale di livello alto di Sergio Maifredi e suggeriva di far rivivere un doge e farlo entrare all’interno del Boschetto. Ma lo spirito creativo e meraviglioso di Sergio ha capito che c’è qualcosa di più più grande di un morto che risorge: tutti quei “morti” seppelliti dentro questi ambienti e che vivono regolarmente in mezzo a noi, ma che noi non vogliamo vedere. E allora a pensato alla “Città invisibile”?”. Con la sua capacità e il suo staff, che è l’altra grande ricchezza, ha incominciato a ascoltare gli ospiti del Boschetto. Il grande Corrado D’Elia ha trasportato le loro storie le storie vere raccogliendole nella drammaturgia. Sono ritornate alla narrativa attraverso la rappresentazione teatrale, non fatta solo dagli attori professionisti, ma, negli spettacoli teatrali, direttamente dagli ospiti e questo ha creato un’atmosfera unica. Insieme alla grande capacità scenografia di Sergio, che ha trasformato queste questo ambiente in una favola con un ambiente surreale di fate, di elfi, di trampolieri che oltre ad alzare e accompagnare gli ospiti qua nel chiostro, hanno saputo poi realizzare una danza, un valzer meraviglioso proprio all’interno della chiesa. E quindi abbiamo unito veramente la storia al sociale. Queste storie di persone che sono uguali a noi, persone che sono passate per il crinale di un monte e sono finite dall’altra parte, come potrebbe capitare a noi molto facilmente. Queste storie sono state unite alla grandiosità dello spettacolo teatrale. E questo è stato la grande storia di Sergio con i suoi attori, con i suoi collaboratori. E questo ha fatto sì che lui si sia innamorato realmente di questo posto, ma non del posto, non solo dei muri, ma delle persone. Lo che ancora oggi. Loro gli telefonano e lui passa ancora di qui e col suo grande cuore offre loro una cena o una focaccia e qualcos’altro. E quindi quello che era uno spettacolo è diventata un’amicizia, è diventata un luogo di vita insieme.

Abbiamo la speranza che l’esperienza si ripeta?

«Bisogna chiederlo a Sergio, ma penso di no, perché tutte le cose hanno un inizio e devono avere una fine e non hanno bellezza assoluta a mio avviso, ma diventano tante bellezze ogni volta che si crea qualcosa di nuovo. Credo che Sergio non punti tanto a rifare la città invisibili, ma magari a fare un’altra edizione, completamente diversa, dalla città invisibile. Raccontando magari altre storie o inquadrando le persone in altri contesti. Certo è che la città invisibile non è morta perché la città ora è visibile».


Da questa esperienza è nato il film “Vite non calcolate”, diretto da Maifredi con Ermanno Cavazzoni, che sarà presentato giovedì 7 settembre, in occasione della 80ª edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica de La Biennale di Venezia, nell’ambito dell’evento di premiazione della 2ª edizione del Premio collaterale ufficiale “Cinema&Arts”, ideato da Alessio Nardin e curato da Teatro Kalambur, Ateatro ed Accademia Eleonora Duse-Centro Sperimentale di Cinema e Arti Performative. Qui l’articolo.

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