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Dello Strologo: il senso della Memoria è fare nostra la storia per prendere la scelta giusta quando dovremo decidere da che parte stare

Il consigliere della Comunità Ebraica, oratore ufficiale alla cerimonia di ricordo del Giorno della Memoria a Palazzo Ducale, ha fatto un discorso mirato soprattutto ai giovani, per spiegarne il senso: quello di evitare la memoria monumentale e antiquaria, scegliendo invece quella critica che, «quando saremo chiamati a scegliere», ci mantenga con «tutti e due i piedi ben piantati nella storia», per decidere di essere «dalla parte giusta, dalla parte dei giusti», non cedendo al desiderio di una maggiore sicurezza, un vento che sta spirando in Italia e in Europa e che chiede «il sacrificio delle libertà e la diminuzione dei diritti, magari quelli di qualcun altro». Perché tutti possiamo essere «abbagliati dal potere, dal prestigio» e «dimenticare la nostra fragilità. Ma in realtà siamo tutti dentro al ghetto e fuori dei recinti del ghetto stanno i signori della morte e stanno lì con i loro treni, pronti a caricarci»

Ecco il discorso di Ariel Dello Strologo

Buongiorno a tutti: autorità civili, autorità religiose, parlamentari. Con un po’ di commozione, anzi tanta commozione, mi accingo a questo compito così importante, che mi riempie di onore.

Non posso che rinnovare il ringraziamento al Comitato ma soprattutto il Prefetto di Genova (Renato Franceschelli n. d. r.) perché in questi anni il lavoro – di cui già si è parlato – del gruppo che fin dall’anno 2001 è stato costituito proprio per mano del Prefetto di allora, c’è stato un lavoro incessante e non è mai mancato l’impegno da parte dell’istituzioni delle associazioni. Devo dire che la regia del nostro Prefetto è stata fondamentale perché non venisse meno la continuità di questo impegno.

È un anno particolare. Vedo che il numero di persone che affolla questa sala, come le altre sale nelle nostre città in questi giorni, lo stia a testimoniare. Siamo in una fase storica molto molto particolare che impone delle riflessioni forse diverse da quelle del passato.

La legge (della giornata della Memoria n. d. r. ) è stata istituita 23 anni fa quindi sono 22 anni che nelle scuole, nell’istituzioni si parla di memoria. Lo abbiamo sentito anche dal nostro sindaco quanto importante sia lavorare sulla memoria. Dobbiamo, però, farci una domanda. Mi chiedo se oggi sono ancora valide le riflessioni che portarono a istituire la legge sul giorno della memoria nell’anno 2000. Dobbiamo chiederci se il contesto storico in cui viviamo, se gli ambienti che frequentiamo, siano ancora gli stessi, siano gli stessi di allora e se le parole, i gesti, le riflessioni, le ideologie che girano per la nostra Europa e per il nostro mondo siano gli stessi e se quindi non dobbiamo fare lo sforzo di chiederci come affrontare, oggi, nuovamente la memoria per tenerla in vita ma perché soprattutto sia uno strumento per tutti, soprattutto per le giovani generazioni, per affrontare la realtà.

Quando fu istituito il Giorno della Memoria, a livello europeo, eravamo in un’epoca particolare. Era in qualche modo finito il non solo il conflitto, il grave conflitto storico di cui appunto si parlava, ma anche le conseguenze che erano durate per molti anni e nel nostro continente c’era in qualche modo la consapevolezza di poter affrontare un periodo storico nuovo, migliore, senza il dualismo storico, politico e geografico che conosciamo, ma soprattutto con un’idea di prospettive di crescita non solo economica ma anche positiva. In quel momento, però, i testimoni, coloro che avevano vissuto sulla propria pelle la loro esperienza, sentirono il bisogno di iniziare a raccontare. Quello che prima era stato un silenzio di tipo protettivo che proteggeva loro, le loro famiglie, i loro cari da un ricordo tragico e doloroso, si trasforma in un bisogno. Un ricordo tragico e doloroso si trasforma in un bisogno, bisogno che forse aveva portato al disperato gesto del suicidio di Primo Levi – non lo sapremo mai -, ma sicuramente aveva portato, come sappiamo – perché c’è stato raccontato molte volte -, tanti testimoni ad affrontare il coraggio di ripassare il momento peggiore della loro storia per poterlo trasferire a chi dopo di loro avrebbe continuato a vivere e avrebbe continuato a farsi portatore dell’esperienza. C’è un bellissimo dialogo tra Elie Wiesel e Jorge Semprún (“Tacere è impossibile. Dialogo sull’Olocausto”, Guanda, collana Le piccole Fenici, 33 € n. d. r.) sull’esperienza concentrazionaria. Semprún era prigioniero politico. Si interrogano nei primi anni 2000 proprio sul senso della testimonianza e quanto fosse necessario ripercorrere enormi sofferenze, fatiche, ma necessario per poter trasmettere la memoria. In quell’epoca fu un fervore di attività uscirono molti libri e molte pellicole. Mi ricordo l’opera monumentale di Spielberg che con i proventi del film Schindler’s List realizzò 55.000 video testimonianze che oggi sono un monumento vivo di testimonianza orale alla Shoah Foundation negli Stati Uniti e che consentono ancora oggi di ascoltare direttamente la testimonianza di chi non c’è più. Ma anche la stessa istituzione del Giorno a Memoria era stato un forte segnale da parte degli Stati di voler istituzionalizzare la memoria. Di far proprio anche da un punto vista giuridico, come stato detto, ciò che era stata l’esperienza più brutta, più tragica e drammatica del nostro continente. Ricordo che nella storia i momenti peggiori della persecuzione ebraica sono avvenuti quando lo Stato se ne è fatto portatore, quando lo Stato ha tradito i suoi cittadini. La scelta europea italiana di istituire il Giorno della Memoria è stata la volontà di dichiarare ad alta voce che lo Stato non avrebbe tradito i propri cittadini come era avvenuto in passato.

Non possiamo negare, quindi, che in questi 23 anni molte cose siano successe, cose positive soprattutto nel campo della scuola. Diciamo che i tratti fondamentali della giorno della memoria di questi anni sono stati proprio sul piano dell’istruzione e della comunicazione. Si è lavorato molto nelle scuole, non finiremo mai di ringraziare gli insegnanti di tutte le scuole italiane, e qui voglio farlo per le scuole genovesi e della Liguria, che hanno dedicato moltissimo tempo sforzi e passione e giustamente questo è stato ricompensata con un premio, un riconoscimento formale. Però, come dicevo, dobbiamo chiederci se – in parallelo – in tutti questi anni, davvero poi si è dato corso a quello che si celebrava. Se questo coltivare la memoria si è tradotto in concreto.

In questa generazione che è passata – perché 23 anni sono sostanzialmente il passaggio di una generazione – abbiamo assistito allo studio della memoria, ma abbiamo anche assistito alla ricomparsa di tanti fenomeni del passato che pensavamo non sarebbero più apparsi nel nostro continente. I nostri compagni di strada, i testimoni diretti, stanno piano piano scomparendo. Fortunatamente c’è ancora qualcuno che si porta sulle spalle il grave fardello del racconto, della testimonianza. Non finiremo mai di ringraziare Liliana Segre, Sami Modiano, Gilberto Salmoni (deportati e reduci dai campi di concentramento n. d. r.). Grazie davvero, grazie, grazie perché grazie a voi ancora oggi riusciamo a vivere quella storia così drammatica e a poterla vivere come – e lo dirò dopo – come se fosse la nostra personale, diretta storia.

Sono stati acquisiti i nuovi elementi di conoscenza anche grazie a tutte le testimonianze che sono arrivate, ma anche per l’apertura degli archivi che il corso della storia ha permesso. Oggi sono disponibile archivi in tutto il mondo, anche nel mondo dell’ex Unione Sovietica e si può conoscere ancora più a fondo la storia. Si è potuto fare un percorso personale. I viaggi nei campi di concentramento e di sterminio di cui parlava prima il viceministro (Edoardo Rixi, presente alla cerimonia n. d. r.) sono stati moltissimi e hanno portato decine e decine di migliaia di giovani da tutto il mondo e anche dal nostro paese a confronto diretto con quella realtà. Quindi credo che non sia possibile oggi sostenere che non si sappia cosa è successo. Oggi la consapevolezza è una consapevolezza diffusa. Oggi poche persone possono dire di non sapere che è esisto Auschwitz (campo di concentramento nazista oggi nel territorio della Polonia n. d. r.). Oggi il problema è un altro. È l’uso che facciamo e che fanno le nuove generazioni di questa consapevolezza. Ci sono i più consapevoli, quelli che traggono direttamente un insegnamento forte da questa storia e scelgono di dedicare una parte della loro vita nel solco dell’insegnamento etico derivante da quello che era successo allora: i ragazzi e le ragazze, in generale alle persone, migliaia di persone, che animano volontariato sociale che si dedicano agli ultimi ai migranti, ai senzatetto, ai portatori di disabilità, agli anziani. Persone che traducono in concreto il messaggio etico derivante dalla loro esperienza, da quello che hanno sentito nelle scuole. Ma penso anche a chi usa la consapevolezza storica in senso opposto, che sa cosa è successo e proprio per questo usa quello che è successo per continuare a portare avanti messaggi di offesa, di ingiurie, di persecuzione, perché questa è. Utilizzando le immagini di Anna Frank apponendo la maglia di una squadra di calcio, urlando slogan e negli stadi o addirittura aggredendo fisicamente e direttamente persone che hanno la “colpa” di essere diverse per scelte per nascita o per casi della vita che le portano magari a dormire per strada nell’atrio di una stazione.

E poi c’è una nuova forma di consapevolezza, anche questa da combattere, che quella che Liliana Segre ha condannato proprio qualche giorno fa e condannato. Più che condannato, ha espresso una preoccupazione forte, quella di un ritornello che sta tornando e crescendo nelle case e nelle strade: “basta con questa storia, gli ebrei ci hanno stufato. Abbiamo capito, abbiamo ascoltato non ne possiamo più. Basta parlare di Shoah, lasciateci in pace”. Insieme a questo ritornello che cresce c’è anche il ritorno dell’antisemitismo. Ci sono dati molto preoccupanti, Statistiche che dicono che l’antisemitismo nella popolazione europea sta crescendo a livelli mai avuti in passato e soprattutto sta crescendo tra i giovani. È un antisemitismo di rabbia, è un antisemitismo dovuto alla ricerca di un “nemico”, tipico di quando le società vanno in difficoltà, in difficoltà economica, in difficoltà sociale e c’è allora bisogno di trovare un nemico verso cui indirizzare la propria rabbia e da ritenere colpevole per quello che capita a tutti noi.

Ed è per questo che lo Stato è importante, per questo ritorno a dire che è fondamentale che esista il Giorno della Memoria e che le istituzioni si facciano carico di questo Giorno tutti i giorni dell’anno, per fare argine a quella che può essere una deriva sociale che in qualunque momento della storia può accadere come è accaduto ottant’anni fa, novant’anni fa.

Ma questo momento storico cambia, è cambiato, anche per qualcosa di più grande che ci riguarda. Anche se non ai nostri confini. Siamo in una fase storica alla quale pensavamo non avremmo più assistito. C’è una guerra nel nostro continente, una guerra classica, una guerra di invasione che sta chiamando il mondo verso un nuovo riarmo. Cose che si pensava che si sarebbero potute evitare grazie alla lezione della Storia. Abbiamo milioni di persone che fuggono dai loro paesi, dovunque. Arrivano sulle nostre coste, passano dalla montagna, cercano di raggiungere una vita migliore, stanno sconvolgendo gli equilibri economici e sociali del nostro continente. Vediamo dei paesi dove anche per la crisi e per le difficoltà di cui sto parlando, la popolazione subisce di nuovo il fascino del governo forte. Cerca soluzioni accorciate soluzioni brevi che portino ad una maggiore sicurezza e in cambio sono disposti a rinunciare delle libertà: alla diminuzione dei diritti, magari di qualcun altro. “Si può fare in cambio io mi sento più tranquillo più sicuro”. Anche nel nostro paese ci sono dei momenti in cui viene il dubbio che ci siano parti della popolazione che sentono di poter rileggere la Storia, tornare a rimettere in discussione fatti che ormai sono consegnati alla Storia e che quindi non bisognerebbe mettere più in discussione. È importante, è importante come avvenuto in questi ultimi settimane e mesi, che ci sia una ferma condanna di quello che è successo con le leggi razziali, ma non può neanche essere solo un alibi per non condannare tutto quello che è successo intorno alle leggi razziali: è stato un periodo storico che ha significato la perdita della libertà la perdita dei diritti per molte persone, un periodo che non può che ricevere una ferma e unitaria condanna da parte di tutti. Siamo qui grazie allo sforzo di chi ha voluto combattere per questo paese, ha costruito questo paese su una Costituzione democratica e non lo possiamo mai dimenticare.

È quindi cambiato il mondo intorno a noi e noi e i nostri figli, voi ragazzi soprattutto, che siete i nipoti – ormai – della generazione dei testimoni, dobbiamo chiederci cosa di fronte a questo mondo così cambiato dobbiamo e possiamo fare per essere davvero portatori di memoria.

C’è un filosofo tedesco importante, che si chiamava Nietzsche (Friedrich Nietzsche, cittadino prussiano e poi apolide n. d. r.), che sosteneva che esistessero tre tipi di memoria. Una memoria monumentale che si avvolge su se stessa, una memoria inutile, una memoria idolatrica, dove il culto della memoria cancella la dimensione critica del sapere; una memoria antiquaria, anch’essa inutile, perché è una memoria che relega tutto al passato, quasi in una logica di distinzione: “quello è successo, noi siamo un’altra cosa”. E poi c’è la memoria critica, l’Erfahrung, la memoria giusta, quella che serve per affrontare la vita di tutti i giorni, per chiedersi criticamente cosa possiamo fare non solo per evitare che succeda di nuovo, ma per rendere comunque questa vita migliore. Noi siamo come degli acrobati su un filo sottile – noi, voi – siamo tutti su un filo sottile in precario equilibrio. Da un lato abbiamo un baratro, che è quello della banalizzazione, della negazione della Shoah. Dall’altro abbiamo il baratro del monumentalismo, della retorica. Quanti eventi storici sono finiti nella retorica e nel monumentalismo!: la prima guerra mondiale per chi alla mia età, la Resistenza per chi ha sempre la mia età e quella successiva. Non possiamo correre questo rischio anche con la Shoah. E non è un problema degli ebrei o delle comunità ebraiche è un problema della società, tutta.

Ad un certo punto, quando si avvertiva già una prima stanchezza, abbiamo pensato che fosse possibile risolvere o comunque affrontare il tema della memoria insistendo di più sulla componente emotiva: i film, la musica, le arti potevano essere il modo giusto per continuare a tenere alto il livello delle emozioni dopo che i testimoni non ci sarebbero stati più. Sono certo che sia stato un errore. Certo, non è stato sbagliato farlo, ma ci siamo illusi che portare i giovani a contatto emotivamente con la sofferenza della Shoah fosse sufficiente perché poi si facessero carico del messaggio che ne derivava. Dobbiamo avere il coraggio di dire che non è bastato, sostanzialmente. Perché non è bastato? Perché la partecipazione emotiva è un fatto che è effimero, che in qualche modo ci travolge, ci coinvolge, ma non si consolida, non entra dentro di noi esattamente quanto la conoscenza della storia. La può accompagnare. Nella tradizione ebraica la storia è definita con un termine che può sembrare curioso che è “toledot” e vuol dire “generazioni”. La storia è la storia dei nostri antenati è la storia dei nostri padri e madri, dei nostri nonni. Studiare la storia, impadronirsi della storia, vuol dire rivivere la storia di chi ci ha preceduto. Nella Pasqua ebraica noi abbiamo una cena particolare, la Seder di Pesach, nel quale torniamo a vivere la dimensione della schiavitù dell’Egitto, la liberazione dall’Egitto, con canti, con cibi, con preghiere e con racconti. Il comandamento, il precetto fondamentale, è “ricordatevi che voi foste prigionieri schiavi in Egitto”. “Voi foste”, non i vostri padri, i vostri nonni, i vostri avi. Ricordare vuol dire rivivere l’esperienza come se fosse nostra, riviverla col cuore riviverla con i sensi, ma riviverla anche con la testa. Non ci si può limitare a una compartecipazione emotiva, bisogna sforzarsi di essere là, come se ci fossimo stati noi, come ci fossimo noi. Auschwitz deve rimanere un fatto oggettivamente accaduto, non un’emozione. JeanFrançois Lyotard (filosofo francese n. d. r.) diceva: «Auschwitz deve essere un fatto perché solo così può diventare rappresentazione, può diventare interpretazione, ma non si si può allontanarsi da ciò che è accaduto». La post memoria, che è la nostra perché noi siamo testimoni di ciò che non abbiamo provato e dobbiamo esserlo anche nelle generazioni future, deve diventare la nostra memoria, la nostra storia. Dobbiamo confrontarci con l’oggettività della storia, conoscere, studiare, appropriarci di ciò che è veramente successo. Questo solo è il modo per rendere omaggio a tutti coloro che hanno avuto la forza e hanno sentito il disperato bisogno di raccontare già quando erano nei ghetti. Nei campi di sterminio sono stati trovati i messaggi: appunti scritti nascosti accuratamente sotto terra perché potessero essere trovati dopo da chi avesse un giorno liberato e trovato quei campi, trovato quei documenti. Lo dobbiamo a loro. Non possiamo solo emozionarci, non possiamo solo compatire in senso, ovviamente, alto, cioè “soffrire con”. Dobbiamo studiare per poter raccontare la loro storia, la nostra storia. Dobbiamo sfuggire dalla retorica, dobbiamo rivivere l’esperienza. E rivivere l’esperienza vuol dire vivere anche l’esperienza dei carnefici non solo delle vittime perché la cosa più facile che ci può capitare domani è di trovarci nella posizione di chi ottant’anni fa ha dovuto fare delle scelte, scegliere da che parte stare, se dalla parte di quelli che giravano la testa e permettevano che certe cose succedessero o addirittura dalla parte di quelli che facevano parte della macchina della persecuzione prima e dello sterminio poi. Affrontare la banalità del male perché se noi studiamo la storia scopriremo che dalla parte dei cattivi c’erano persone ordinarie persone come noi, banali, anche insignificanti

Come Primo Levi ci ha insegnato, tutti in realtà possiamo essere così abbagliati dal potere, dal prestigio, da dimenticare la nostra fragilità. Ma in realtà siamo tutti dentro al ghetto e fuori dei recinti del ghetto stanno i signori della morte e stanno lì con i loro treni, pronti a caricarci. L’esercizio della memoria ci porta a considerare come tutti coloro che si resero partecipi della persecuzione degli ebrei, dei rom, dei disabili, degli omosessuali scelti come vittime in quanto tali, tutti erano persone come noi. Potremmo quasi dire “persone perbene”, padri e madri di famiglia, giovani, portatori di affetti, di sensibilità culturali e artistiche. Prima ancora è stato detto che l’Europa civile fosse il punto più alto, culturalmente parlando, che aveva raggiunto l’Europa e in particolar modo la Germania e l’Italia. Io che sono libero, voi che siete liberi, voi che potreste trovarvi da un momento all’altro, che vi troverete a dover decidere da che parte stare, cosa fareste, anzi cosa farete, quando sarete chiamati a fare questa scelta? Qui si gioca la partita della memoria e credo che questo sia il senso della memoria che ci dobbiamo portare dietro per i prossimi anni quando, forti della nostra libertà, saremo chiamati a fare delle scelte.

Emmanuel Lévinas (filosofo francese di origini lituano-ebraiche n. d. r.) la definisce “una difficile libertà”, una libertà che comporta l’assunzione di una responsabilità: fare una scelta che sostanzialmente è una scelta etica, privilegiare il nostro vicino, il nostro vicino di casa, l’altro da noi che è così altro da essere la cosa che più ci assomiglia e che è più vicina a noi. È difficile perché richiede sforzo e forse in questo in quest’epoca, se dobbiamo fare un appunto a questa epoca in cui viviamo e stiamo vivendo con l’idea che tutto sia facile che tutto si possa ottenere facilmente e soprattutto che i diritti siano più importanti dei doveri, e invece no: essere liberi vuol dire accettare la difficoltà di fare delle scelte, quindi di prendersi la responsabilità di scegliere da che parte stare, ribellarsi alla tentazione della fuga, del disimpegno. Sfidare il conformismo sfidarlo a scuola, sugli autobus, sfidarlo allo stadio, in politica, nelle piazze, nelle istituzioni. Avere il coraggio di ricordare di avere una coscienza.

Edith Bruck (di origine ungherese, scrittrice, regista e sopravvissuta all’Olocausto n. d. r.) qualche giorno fa ha detto chiaramente che l’insegnamento della Shoah è non fuggire da ciò che riguarda la propria coscienza. Quindi dobbiamo avere la forza di prendere in mano questa sfida, la tentazione di essere noi tra coloro di cui domani si parlerà come di quelli che hanno voltato la testa dall’altra parte o, ancora peggio, sono stati sopraffattori. Può essere molto più facile di quanto pensiamo cadere in questa tentazione, a volte inconsapevolmente, presi dei problemi, dalle difficoltà della nostra vita. Ci può capitare come singoli o ci può capitare, come gruppo, come parte di una comunità. Ecco, quindi, secondo me, cosa può essere il nostro impegno per onorare la memoria di ciò che è stato, perché davvero si possa dire che non accadrà di nuovo, perché davvero si possa dire di essere stati partecipi del tentativo di non fare accadere di nuovo quello che è successo: uscire dalla dimensione della retorica e conservare la dimensione etica che è connessa alla nostra libertà. Non sfuggire alla chiamata che viene dagli altri, dalle persone che hanno bisogno e che devono essere aiutate nel momento del bisogno. Fare memoria, insomma, vuol dire essere con tutti e due i piedi ben piantati nella storia. Essere dalla parte giusta, dalla parte dei giusti.

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