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37 anni fa le BR uccidevano Guido Rossa, il sindacalista-alpinista che vorremmo ancora con noi oggi

Sono passati 37 anni dall’omicidio di Guido Rossa, un gesto che nel tempo ha assunto per la sua assoluta ferocia e crudità il profilo di una tragedia assoluta. Le epoche di una città sono rappresentate spesso da fatti tragici che segnano una svolta e per questo vengono ricordati. La morte di Guido Rossa segnò senza dubbio un’epoca e di quelle ore, del suo martirio, delle angosce e delle paure che emersero in quei giorni così lontani siamo segnati tutti più o meno consapevolmente. La morte di Rossa rese tutti colpevoli. La grande folla che si riunì in piazza De Ferrari per ricordarlo era una massa di persone che in fondo al cuore si sentiva in colpa, non per fumose questioni ideologiche, ma perché era capitato un fatto tragico perché uno di loro, forse il più giusto e retto, era stato lasciato solo.

Così racconta Sabina Rossa, sua figlia all’epoca una bambina, il momento in cui si disvelò l’assolutezza della tragedia: «Nel 1979 avevo sedici anni. Secondo anno di istituto magistrale. Uscii per andare a scuola. Era il 24 gennaio, un mercoledì. Faceva freddo, il cielo nuvoloso. Passai accanto alla macchina di mio padre, ma non la vidi, non vidi il suo corpo riverso sul volante. Solo più tardi, oltre un’ora dopo, se ne accorsero una ragazza e uno spazzino. Ancora oggi, quello, rimane il mio cruccio più grande. I miei compagni erano tutti in strada, pensavo ci fosse una delle solite assemblee, ce n’erano di continuo allora. Io andai in classe. Venne la mia insegnante di inglese, mi poggiò una mano sulla spalla e mi disse: “devi andare a casa, tuo padre ha avuto un incidente”. Non capivo perché dovesse accompagnarmi la madre di una mia amica. “Conosco la strada”, risposi. Lei mi fece salire in macchina, ricordo che percorse un itinerario più lungo. Quando arrivai vidi poliziotti, carabinieri, tanta gente. Mia madre si avvicinò, disse: “hanno ammazzato tuo padre».

Guido Rossa, operaio e sindacalista, iscritto al PCI guidato allora da Enrico Berlinguer venne ucciso per aver denunciato un compagno di fabbrica come appartenente alle BR.

A partire dalla primavera del 1978, dopo il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, Pci e sindacato innalzano le difese all’interno delle fabbriche. Ogni documento, episodio o persona, riconducibile alle Brigate Rosse deve essere segnalato ai Consigli di fabbrica e questi sono tenuti a denunciarli al servizio di vigilanza degli stabilimenti. E’ quello che succede il 25 ottobre all’Oscar Sinigaglia di Genova Cornigliano. Degli operai trovano, dietro a una macchinetta del caffè, un opuscolo delle Brigate Rosse, ‘Risoluzione strategica febbraio 1978’. Consegnano i volantini al delegato di fabbrica Guido Rossa. I sospetti si concentrano su Francesco Berardi, operaio con mansioni di fattorino, che non ha mai fatto mistero delle sue simpatie brigatiste. In fabbrica è soprannominato ‘il poeta della rivolta’ per le sue poesie rivoluzionarie. All’interno del suo armadietto saltano fuori altri volantini con la ‘stella a cinque punte’, un foglio di carta con i numeri di alcune targhe automobilistiche riferibili a impiegati e dirigenti d’azienda e i volantini di rivendicazione delle Br per l’assassinio di Pietro Coggiola, dirigente della Lancia di Torino. Davanti ai carabinieri, a rendere testimonianza sul ritrovamento dei volantini e a firmare la denuncia sarà un uomo solo: Guido Rossa. Berardi viene arrestato e processato per direttissima. Nei giorni successivi i delegati che si erano recati al Comando dei Carabinieri senza però firmare l’atto spariscono dalla circolazione. Chi raggiunse parenti lontani, chi andò a lavorare in una cooperativa emiliana; chi sparì per mesi.

Berardi viene condannato a quattro anni e sei mesi. Ma le Br, sono tutt’altro che sconfitte e per nulla intimidite, lanciano un ulteriore gesto di sfida e diffondono il diario di lotta delle fabbriche genovesi Ansaldo e Italsider: si tratta di 72 pagine in cui dichiarano guerra ai berlingueriani che «praticano la delazione contro le avanguardie rivoluzionarie, reclamando la necessità di un salto di qualità nei livelli militari e politici». Per Rossa è un calvario, affrontato in quei terribili giorni sempre interiormente, per non allarmare i suoi cari. E in qualche modo sempre da solo. Nel limbo grigio e qualunquista di chi si riconosceva nell’assioma “né con lo Stato né con le BR” si diffonde nei confronti di Rossa una calunnia vergognosa: viene chiamato “l’infame”. Prima arrivano le minacce anonime, poi, tre mesi dopo, la vendetta assassina. Partecipano all’attentato tre brigatisti: Riccardo Dura, Lorenzo Carpi e Vincenzo Guagliardo.

Rossa viene assassinato sotto casa sua, nel quartiere di Oregina. Quando esce dal palazzo di via Ischia, per recarsi in fabbrica, non sono ancora le sei e mezza. Si dirige verso la sua vecchia Fiat 850, parcheggiata nella vicina via Fracchia. Durante il tragitto coglie qualcosa che lo insospettisce. La portiera di un furgone Fiat 238, posteggiato nei pressi, si è appena spalancata: due persone balzano a terra, si avvicinano minacciose. Rossa capisce. Corre verso l’auto, si getta nell’abitacolo, abbassa la sicura, ma non riesce a inserire le chiavi nel cruscotto viene raggiunto. Una figura scura incombe di lato, all’esterno dell’auto, e fa fuoco attraverso il finestrino. Tre colpi in rapida successione. Rossa scalcia verso la portiera, cerca di evitare i proiettili. Pochi secondi dopo, altri tre spari. L’operaio non si muove più. Una delle immagini più tragiche e iconografiche degli anni di piombo è quella di un uomo con la barba riverso sul sedile di un’auto, le gambe in avanti sull’altro sedile, il capo piegato sul volante.

Si è detto forse troppe volte che l’omicidio di Guido Rossa è stato il più grande errore delle BR ma non si è mai fatto abbastanza notare che anche gli ideali per cui si immolò il sindacalista sono stati rappresentati e difesi all’altezza del gesto di questa persona ordinaria nella sua normalità ma straordinaria per capire e intuire a differenza di molti altri quanto c’era in gioco in quel minimo episodio nella sua fabbrica. La buona notizia a distanza di 37 anni da quel lugubre giorno è che non esistono più le BR, quella cattiva è che non ci sono più i Guido Rossa di allora.  (di seguito un brano de “La storia siamo noi” di Giovanni Minoli quando un tempo si dedicava spazio della tv pubblica per capire cosa accadde e un brano di un’atica trasmissione andata in onda su “Telecittà” negli anni ’80)

 

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