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Derby di quartiere al Cabona, il “Bar Sport” dei carruggi

di Monica Di Carlo

Per strada non c’è anima viva. Eppure siamo in una delle strade della movida, una di quelle in cui nei giorni pre festivi si passa a colpi di “permessooo” e spintoni (sperando di evitare i gavettoni lanciati dalle finestre dagli abitanti sui ragazzi caciaroni) e anche così ci si impiegano 40 minuti per fare 10 metri. Mentre i passi risuonano sulle lastre di luserna nel silenzio più innaturale vengono in mente le ipotesi più disparate: gli alieni sono scesi sulla terra e si sono impossessati del centro storico; è stato imposto il divieto totale di vendita e somministrazione di alcol e c’è il reggimento Tuscania a farlo rispettare blindando i vicoli laterali di accesso a San Bernardo; l’Isis è passato alla guerra batteriologica usando la città vecchia per fare il primo test. Piero ha persino lasciato la sua vespa rosa in mezzo alla strada, abbandonata.

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All’improvviso, il boato. È come se qualcuno avesse riacceso la vita in quel tratto dei carruggi mettendo il volume al massimo. È un solo, lungo, urlo che profana il silenzio, fatto di gioia e allo stesso tempo di bestemmioni che farebbero arrossire un portuale a cui sia caduta una cassa sul callo del dito mignolo di un piede.
Tutti i temi che toccano l’essere umano nel profondo dell’anima si possono guardare da due punti di vista opposti: o sei rosso o sei nero, o ami oppure odi, o sei ateo o sei religioso, o sei onesto o sei un criminale. O tifi Genoa o tifi Samp. E, se è il 18° del primo tempo del derby di ritorno della Lanterna, o scomodi tutti i santi in meticoloso ordine alfabetico oppure gridi <Sorianoooooo> fino a farti scoppiare i polmoni.
È come se un intero stadio si fosse stipato dentro al “Cabona”, il luogo dove i tifosi della zona si danno appuntamento per vedere le partite su Sky. Ci sono due sale e di solito in una si guarda la squadra del cuore e nell’altra si gufa.

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Durante tutto il campionato arrivano tifosi rossoblu e blucerchiati. Quelli della squadra che sta giocando si schierano sulle sedie della stanza del flipper, gli altri nella saletta del calciobalilla dove c’è un’altra tv. Ma stasera no, stasera si sta tutti fianco a fianco, stipati all’inverosimile ai tavolini o in piedi, a seconda che si abbia prenotato o non si sia avuta la lungimiranza di telefonare “per tempo” (cioè almeno un paio di mesi prima) per chiedere ad Andrea, il titolare, di “tenere una sedia”. Su ogni sedia c’è un postit giallo, con il nome di chi è autorizzato ad occuparla.

Il Cabona è uno dei pochi locali frequentati ancora da chi nel centro storico è nato. Gli “immigrati” (da Castelletto, da Oregina, dalle vallate, dal Ponente o dal Levante) vengono sempre guardati un po’ come stranieri dagli altri avventori e non importa che in zona abitino ormai da vent’anni.
Al mattino si prende un caffè facendo due chiacchiere, a mezzogiorno gli operai che lavorano in zona entrano per mangiare un toast o uno dei deliziosi tramezzini confezionati dalla mamma del titolare. Per tutta la giornata c’è il via vai di chi entra per comperare il latte o i biscottia. Verso le 19, Andrea chiude il reparto latteria, spegne le luci al neon e accende i faretti. È a quell’ora che i ragazzi arrivano da tutta Genova per bere un drink e guardare di sottecchi le ragazze straniere dell’Erasmus sperando in un cenno da parte loro e sognando ad occhi aperti avventure con la biondissima inglese o con la canadese volitiva. Quando c’è il derby, però, i ragazzi non si accostano nemmeno, a meno che non siano tra quelli che hanno prenotato.
Il Cabona è un locale storico, con le volte coperte delle tradizionali piastrelle bianche e il pavimento in mosaico aggiunto negli anni ’70. È uno di quei luoghi un po’ fané del centro storico dove il tempo sembra essersi fermato. Le uniche “innovazioni” sono una lampada a laser che proietta disegni di luce su un soffitto e, appunto, i due televisori acquistati proprio per consentire ai clienti di vedere le partite. All’ingresso c’è un banco frigo colmo di salumi, insalata, pomodori e di tutto quello che può servire per realizzare uno spuntino veloce. Insomma, è proprio il più tradizionale dei bar di quartiere, tanto che ci si stupisce che dalla vetrinetta non faccia capolino anche la Luisona, la pasta umanizzata che è parte integrante dell’arredamento e della fauna del “Bar Sport” di Stefano Benni.

Quando c’è il derby, scende dalle case anche chi di solito la sera non esce e magari sta alle finestre, a lamentarsi della movida. Ci sono giovani, signori di mezza età, mamme con bambini. Tutto il quartiere si stipa dentro il locale e si dispone a naso in su verso gli schermi. Poi, comincia lo spettacolo. No, non la partita, ma quell’insieme di cabale, commenti da ct della nazionale, sventolamento di sciarpe della rispettiva squadra, urla, gridi, sfottò, fantasioso turpiloquio che caratterizza da sempre ogni “gruppo d’ascolto” della sfida di campionato tra il Grifone e il Pescatore con la pipa.

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Sono tutti lì, genoani e sampdoriani, gomito a gomito, a sperare, soffrire, sbuffare, gridare istruzioni all’indirizzo di giocatori, allenatori e arbritro come se questi potessero sentire. E ognuno di loro sa esattamente cosa dirà o farà l’altro in caso di calcio d’angolo, fallo, rigore o gol. Gigi, ad esempio, ogni volta che la sua squadra infila la palla in rete esplode in un fragoroso <Siiiiì, il calcio è un gioco maschio!!!>, quindi comincia a ballare per la sala. Stavolta gli è andata piuttosto bene perché è sampdoriano e ha potuto ripetere il “rito” per tre volte.

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Nella pausa tra il primo e il secondo tempo si esce tutti in strada per fumare una sigaretta e commentare i primi 45 minuti di gioco. Ci sono quelli che si arrabbiano, quelli pallidi come cadaveri, quelli che saltellano di gioia. Natascia, guida turistica, ha portato i suoi bimbi, Irene e Diego. <È un bel momento da vivere tutti assieme> dice la donna. Gino (a destra nella foto) è arrivato bardato con la sciarpa della Samp. Riccardo (detto “Gina”), con quella del Genoa. <Voi siete più squadra, ma non tirate in porta – dice Gino -. Il vostro centrocampo è meglio del nostro e avete un signor portiere>. <Sì, però voi fate gol> risponde l’altro. Commenti pacati, sereni. Prima di rientrare per il secondo tempo, Gino e Riccardo posano volentieri per una foto ricordo in cui sta tutto lo spirito sportivo che manca a certi tifosi.

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È il momento di riprendere posto, ma qualcuno a quel punto (il Genoa è sotto di due gol)  preferisce ascoltare da lontano, senza vedere la tv e non torna a sedersi. Capisce l’andamento della partita da quello che fanno e dicono quelli che stanno davanti allo schermo. Gli altri si accomodano e attendono il fischio di inizio.

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Cominciano altri 45 minuti di passione, più il recupero. La Samp fa il terzo gol, e a quel punto c’è chi scomoda persino Dio mentre altri si limitano più concretamente a prendersela con Gasperini. A quel punto il Genoa comincia a rimontare e i doriani invocano a loro volta santi e madonne come solo un tifoso di pessimo umore sa fare. Anche il secondo tempo passa in fretta. L’arbitro fischia ed è l’ora di sciogliere i ranghi. C’è chi commenta acido, chi si diverte a sfottere, chi incassa masticando amaro e chi se ne va senza nemmeno salutare, ma i più restano lì, a discutere della partita con calma e obiettività, ma ognuno saldamente convinto della propria “fede”, al di là del risultato. <Il calcio è l’ultima cosa che genera senso di appartenenza – commenta, sarcastico, Gino -. Una volta c’erano i partiti, i sindacati. Ora c’è solo la squadra. Lasciateci almeno quella>.
Come per magia, San Bernardo riprende vita dopo 90 minuti di fiato sospeso e religioso silenzio mentre i tifosi si allontanano. Tornano i giovani che fanno il giro dei locali della movida, tornano anche le ragazze dell’Erasmus. Qualche tifoso prima di tornare a casa prenota già la sedia per la prossima partita.

 

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