Schiave a Genova, le storie dimenticate delle ragazze del Mar Nero
Di Black Giac – “Genuensis ergo mercator” Un poeta anonimo del XII secolo definì con un’efficace e insuperata sintesi lo spirito genovese di quei secoli. In sé la definizione, perfettamente equilibrata, non dava adito a una valutazione esplicitamente negativa.
Si esprimeva l’indole dei genovesi a essere mercanti e a commercializzare e trasportare qualsiasi cosa. La premessa va fatta perché parlando di schiavismo occorre dire che i genovesi sono stati tra gli ultimi nell’800 ad abbandonare questa tipologia di merce da trasportare quando ormai in quasi tutto il mondo la pratica veniva abolita.
C’è stato però un periodo estremamente florido, quello della grande espansione genovese prodotta dalle crociate con la fondazione delle diverse colonie nel mar Nero, nell’Egeo, in Corsica e in Tunisia. I genovesi trattavano quindi gli schiavi in una duplice valenza: in quanto merce da trasportare da una parte all’altra del mondo e in questo, secondo le carte della Rivista dell’istituto di Storia Medieterranea, erano scrupolosi e attenti affinchè la merce arrivasse in buono stato di qualunque genere fosse e non si riscontrano i crudeli trattamenti che purtroppo caratterizzarono molti episodi di questo commercio.
Non diverso ma caratterizzato da alcuni aspetti che dicono ancora qualcosa alla nostra storia l’approccio che i genovesi avevano verso i loro schiavi. Intanto, non dovevano essere cristiani (questo in generale ma nel trasporto ci poteva essere qualche “svista”) ma di altra fede religiosa principalmente ebrea o musulmana. Schiavizzate al momento della conquista della loro città oppure vendute come schiave dalle stesse famiglie di origine le donne erano richieste più che gli uomini per essere utilizzate nei lavori domestici. Queste, giovanissime, arrivavano dalle colonie e per l’epoca potevano essere una novità esotica molto attraente per i genovesi.
Bionde o scure di pelle a seconda della provenienza, il loro compito dietro la dicitura “lavoro domestico” era assai ben più complesso.
Intanto, gli scopi “palesi” ovvero quello di dedicarsi ai lavori domestici e eventualmente fare da balie ai neonati, l’altro era quello di concubine. Gli aristocratici genovesi per evitare il più possibile malattie ma anche di esporsi all’interno delle mura di Monte Albano, il quartiere a “luci rosse” genovese del medioevo, preferivano avere una schiava sotto il tetto domestico che potesse soddisfare comodamente i piaceri del “pater familae” o di svezzare il giovane rampollo che non era il caso andasse a mischiarsi con il volgo tra le braccia di chissà chi.
Quello che sfuggiva ai nobili era che le ragazze una volta colto il punto della situazione tra una pausa e l’altra delle loro incombenze uscivano di casa e “arrotondavano” sotto i portici di Sottoripa senza particolare attenzione al comune senso del pudore. Nicolò Filelfo dotto umanista milanese del ‘400 rimase scandalizzato dalla frenetica attività sessuale di queste donne.
Trattate con grande riguardo al loro arrivo, le ragazze quando fisiologicamente arrivava la gravidanza, cambiavano il loro status. Il figlio naturale che nasceva presumibilmente concepito all’interno delle mura nobiliari (ma come abbiamo visto non era sempre detto) veniva assimilato alla famiglia e a quel punto della madre si perdevano le tracce. E’ quindi assai probabile che le schiave circasse, turche e tunisine ripudiate dai loro proprietari e senza alcuna possibilità di sostentamento costituissero proprio il primo nucleo delle “extravagantes” ovvero le prostitute che si trovavano fuori da Monte Albano.
Un’attività vietata formalmente dalla Repubblica ma tollerata soprattutto vicino al porto. Non mancavano ovviamente anche gli schiavi maschi. Molti arrivavano dal Maghreb poi dagli stati barbareschi e dalla Turchia. Avevano una certa libertà all’interno delle mura cittadine e svolgevano lavori di piccola manifattura. Le loro storie incerte parlavano di guerre e sconfitte ma a Genova la loro condizione, anche da quello che è rimasto delle testimonianze artistiche che li ritraggono come elementi tipici dell’antropologia urbana di allora, sembrava alla fine piuttosto accettabile. Ci furono anche casi drammatici come i bimbi ebrei venduti come schiavi dalle loro famiglie ai genovesi nell’inverno del 1493, quando un migliaio di questi arrivarono a Genova dopo l’espulsione dalla Spagna.
Le autorità genovesi chiusero gli ebrei a Malapaga senza un tetto e in preda alle intemperie. Molti di loro già provati dalla fuga morirono in quell’inverno e chi aveva bimbi piccoli scelse la strada di venderli come schiavi pur di saperli al caldo e relativamente al sicuro. Altro caso drammatico è quello legato alla cosiddetta “crociata dei fanciulli” del 1212. Quando migliaia di bambini arrivarono a Genova e a Marsiglia e non avvenne il miracolo che si aspettavano, l’apertura delle acque del Mediterraneo per raggiugere la Terra Santa, alcuni di loro a Genova furono “accolti” nelle famiglie proprio come schiavi. I bambini che arrivarono a Marsiglia furono raggirati da un mercante di schiavi (genovese) che promettendo che li avrebbe portati al di là del mare verso Gerusalemme li convinse a salire sulla sua nave. In realtà la sorte dei ragazzi fu quella di essere venduti come schiavi nei diversi porti del sud del Mediterraneo.
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