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Il “Bisagno”, storia del cattivo compagno di Genova

Di Black Giac – Questa è più della storia di un torrente, Il Bisagno nei secoli ha intrecciato con Genova una forma di osmosi, dove di volta è la città o il fiume a prendere il sopravvento l’uno sull’altra e viceversa. Con un po’ di fantasia guardando alle favole nordiche il Bisagno potrebbe essere il drago che incombe su Genova, alle volte benigno, capace con la sua forza e la sua acqua di rendere vivibile la vallata che attraversa, la Val Bisagno appunto, ma allo stesso tempo di essere letale sempre alla stessa maniera, quando le onde diventano nere e dal torrente si alza il fetido odore di fango e fogna.

Cominciamo però dalla geografia pura: taglia in senso longitudinale il capoluogo ligure dando il nome alla stessa valle. La conformazione orografica della relativa Val Bisagno definisce l’assetto territoriale di tre comuni: Genova, Bargagli e Davagna. Tra i suoi affluenti vi sono il torrente Lentro, il torrente Canate, il rio Geirato, il rio Torbido, il rio Molassana e il rio Fereggiano. A essere precisi, il torrente nasce come Bargaglino al Passo della Scoffera, assumendo poi il nome di Bisagno dalla confluenza con il Lentro, nei pressi di località La Presa.

Con l’acqua del Bisagno nel medioevo si azionavano le ruote dei mulini, si facevano funzionare le fornaci e venivano irrigati i “terrazzani” cioè gli orti, lungo il suo corso. Il “Giro del Fullo” poco prima di Struppa deriva il suo nome dalle antiche attrezzature per la follatura della lana, i cosiddetti “folloni” che battevano i panni di lana rassodandoli e infeltrendoli. Per centinaia di anni la riva sinistra del Bisagno è stata ricca di boschi mentre quella di destra era dedicata all’agricoltura. Tra il ‘500 e il ‘700 la piana del Bisagno era una grande distesa di campi coltivati e la produzione ortofrutticola era una tale specialità che il fruttivendolo a Genova è ancora oggi chiamato dai più anziani “u besagnin”. Sul greto del fiume si poteva incontrare oltre ai contadini un’altra figura molto popolare e amata: la lavandaia. Erano donne e ragazze (ma c’erano anche degli uomini) che raccoglievano la biancheria in città per andare a poi a lavarla, a pagamento, sul fiume. Un’attività per povera gente ma che faceva delle lavandaie le protagoniste di tante storie e aneddoti. Dalla loro abitudine a cantare mentre lavavano dopo che fu costruito il cimitero di Staglieno si trasse il detto per chi moriva che “era andato a sentire cantare le lavandaie”. Durante la seconda guerra mondiale dopo l’8 settembre 1943 un soldato del regio esercito decise che non avrebbe proseguito la sua storia militare a fianco dei tedeschi e dcappò sulle montagne per iniziare la resistenza contro i nazi fascisti. Aldo Gastaldi che diventò uno dei più importanti partigiani di tutto il movimento decise che il suo nome di battaglia sarebbe stato “Bisagno”.

Nondimeno il Bisagno è stato nei secoli forte elemento di preoccupazione, una catastrofe imminente sulla città, uno tsunami che invece di arrivare dal mare arrivava dai monti portando rovina, distruzione e morte.

Detto che le alluvioni di cui Genova è stata vittima recentemente non sono sempre dovute allo straripamento del torrente ma, a volte, dei suoi principali affluenti (nel 2013 fu il caso del Fereggiano) i disastri provocati dal Bisagno sono all’ordine del giorno e fanno più parte della cronaca che non della storia. E’ giusto anche dire che pure in epoche in cui l’edilizia soffocante degli anni ’30 in poi non aveva imprigionato il torrente i disastri si erano verificati ugualmente. Gli annalisti di un tempo parlano di una rovinosa alluvione nel 1278 ed è grazie al poeta George Byron che ci è arrivata sino a noi attraverso le sue lettere una vera e propria cronaca dell’alluvione del 1822 con il classico copione che tutti conosciamo bene: esondazione, allagamento della zona di Brignole e delle via adiacenti. La forza delle onde portò via parte del ponte di S. Agata e provocò diverse vittime.

Negli anni ’30 si decise con un’operazione non particolarmente lungimirante di coprire l’ultimo tratto del Bisagno, quello che da Brignole va sino al mare. I lavori cambiarono profondamente il volto di Genova, vennero dismesse le ormai obsolete “fronti basse” e sparì ponte Pila. Il Bisagno fu rivestito di cemento e quell’area venne intensamente utilizzata per ulteriori costruzioni come Corte Lambruschini con un attrezzatissimo mercato dei fiori. La reazione del Bisagno arrivò nel 1970 con una delle più disastrose alluvioni della sua storia. La città moderna, più densamente abitata e popolata anche nelle zone dove precedentemente il torrente poteva allargarsi senza particolari danni, finì letteralmente sott’acqua e si contarono alla fine 25 morti con danni incalcolabili. Fabrizio De Andrè in “Dolcenera” nei suoi versi esprime tutta l’angoscia provocata dall’orribile immagine della massa d’acqua che si abbatteva sulla città.

“nera che porta via che porta via la via 
nera che non si vedeva da una vita intera così dolcenera nera 
nera che picchia forte che butta giù le porte 

nu l’è l’aegua ch’à fá baggiá 
imbaggiâ imbaggiâ” 

Ma l’esperienza devastante di allora servì a poco.

Nel 2014 Genova finisce nuovamente sott’acqua per colpa del Bisagno e si conta ancora un morto con ulteriori profonde ferite al tessuto economico e commerciale della città (dopo che nel 2011 era stato il Fereggiano a esondare con altre sei vittime).

Oggi dopo fiumi di inchiostro oltre che di acqua per comprendere il problema e trovare le soluzioni il torrente resta un gravoso problema che incombe sulla città anche a causa dei cambiamenti climatici e dei disastrosi rovesci che avvengono su Genova periodicamente. La cattiva gestione urbanistica dagli anni ’30 in poi con una indiscriminata costruzione sopra il torrente e i suoi affluenti ha ulteriormente aggravato la situazione. Leggendo la storia appare chiaro che si evidenzi la necessità non di una corsa a rimedi stagionali e temporanei ma di una rilettura del tessuto urbanistico di Genova stessa, qualcosa che la politica amministrativa degli ultimi anni non sembra non solo in grado di comprendere ma neanche di elaborare.

“Alluvione programmata”

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