Caso Hannoun, la comunità islamica: «Siamo tranquilli, ma preoccupati per la criminalizzazione degli aiuti»

Dopo l’arresto di Mohammad Hannoun nell’inchiesta sui presunti finanziamenti illeciti, interviene Husein Salah, portavoce della comunità islamica di Genova: «Siamo molto tranquilli» sull’esito giudiziario, ma c’è «preoccupazione» per il clima che rischia di colpire anche il movimento di sostegno a Gaza. Hannoun ad agosto negava qualsiasi appartenenza a Hamas, rivendicando però la propria militanza nella causa palestinese e definendosi “simpatizzante”

Nel giorno in cui l’inchiesta che coinvolge Mohammad Hannoun continua a far discutere, dalla comunità islamica genovese arriva un messaggio che prova a tenere insieme due piani: la fiducia nelle sedi giudiziarie e l’allarme per le ricadute pubbliche e politiche del caso. A parlare è Husein Salah, palestinese e portavoce della comunità islamica di Genova, che difende l’operato di Hannoun e invita a distinguere tra accertamenti in corso e giudizi sommari.

“Siamo molto tranquilli”, dice Salah, spiegando di essere convinto che “la giustizia italiana farà il suo corso” e che Hannoun “sarà prosciolto dalle accuse”, richiamando anche un precedente di anni fa, quando un’indagine si era chiusa senza conseguenze per l’interessato. Ma la tranquillità sulle procedure non cancella l’inquietudine per ciò che sta accadendo fuori dai tribunali: Salah parla di “preoccupazione” per “tutta la campagna mediatica e politica” che, a suo avviso, tende a “criminalizzare non solo chi porta aiuti a Gaza, ma anche tutto il movimento a sostegno della popolazione palestinese”.
Sul profilo delle attività svolte da Hannoun, il portavoce non esprime dubbi. “La sua è un’attività benefica che porta avanti da moltissimi anni”, sostiene, ribadendo che l’aiuto sarebbe “destinato alla popolazione civile”. E aggiunge un elemento che, nel ragionamento di Salah, rende ancora più necessario evitare generalizzazioni: “tutti sappiamo di quanto bisogno di aiuti c’è a Gaza ancora oggi”.
Accanto alle parole di Salah, torna d’attualità una dichiarazione rilasciata da Hannoun lo scorso agosto, in cui aveva respinto con decisione l’idea di essere un dirigente o un membro di Hamas. In quell’intervento Hannoun affermava: “Io non appartengo a Hamas… non faccio parte di Hamas” e definiva “una bugia, una bufala” le accuse di essere “un leader di Hamas”. Rivendicava però la propria identità politica e nazionale, dicendo di “fare parte del popolo palestinese” e di sostenere “ogni fazione… che lotta” per i diritti e “per l’autodeterminazione”. Nello stesso ragionamento, Hannoun sosteneva che Hamas “fa parte del popolo palestinese” e arrivava a dichiararsi “simpatizzante di Hamas”, aggiungendo di essere “simpatizzante di ogni fazione che lotta per i miei diritti”.
Nella parte conclusiva del suo intervento di agosto, Hannoun interpretava le accuse come un tentativo di colpire non solo lui ma anche chi gli si avvicina: parlava di attacchi utili a “infangare” lui “di persona” e “chiunque si fa fotografare” con lui o partecipi a “delegazioni” e “missioni umanitarie” o a iniziative “pro Palestina in Italia”. Un’impostazione che oggi, con l’inchiesta in corso, si scontra con la ricostruzione degli investigatori e con gli accertamenti che dovranno essere valutati nelle sedi competenti.
Nel frattempo, il caso continua a produrre un effetto a cascata sul dibattito cittadino e nazionale: da una parte la linea della magistratura e delle forze dell’ordine, dall’altra la richiesta – espressa da chi sta vicino a Hannoun – di non trasformare un’indagine in un marchio collettivo su associazioni, attivisti e iniziative solidali. È proprio su questo crinale, tra giustizia e opinione pubblica, che nelle prossime settimane si misurerà non solo l’esito processuale, ma anche la tenuta del confronto civile attorno alla guerra e alle sue conseguenze.
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