Cultura 

“Nostalgia, modernità di un sentimento dal Rinascimento al Contemporaneo”. Mostra al Ducale

Fino al 1º settembre nell’appartamento del Doge oltre centoventi opere – dipinti, sculture, arti decorative, grafica e volumi illustrati – di artisti come Albrecht Dürer, Luca Giordano, Jean Auguste Dominique Ingres, Francesco Hayez, Giovanni Boldini, Giacomo Balla, Giorgio De Chirico, Lucio Fontana, Ives Klein e Anish Kapoor, provenienti da prestigiosi musei e collezioni private italiani e internazionali. A cura di Matteo Fochessati in collaborazione con Anna Vyazemtseva

Una grande mostra – Nostalgia. Modernità di un sentimento dal Rinascimento al contemporaneo– nelle sale dell’Appartamento del Doge a Palazzo Ducale di Genova per esplorare un sentimento ambivalente e dai molteplici significati, attraverso un itinerario tra le arti figurative dal Quattrocento al Contemporaneo. L’esposizione, curata da Matteo Fochessati in collaborazione con Anna Vyazemtseva, è prodotta e realizzata da Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura e rientra nell’ambito delle iniziative di Genova Capitale Italiana del Libro.

A partire dal 25 aprile fino al 1° settembreoltre centoventi opere – dipinti, sculture, arti decorative, grafica e volumi illustrati – di artisti come Albrecht Dürer, Luca Giordano, Jean Auguste Dominique Ingres, Francesco Hayez, Giovanni Boldini, Giacomo Balla, Giorgio De Chirico, Lucio Fontana, Ives Klein e Anish Kapoor, provenienti da prestigiosi musei e collezioni private italiani e internazionali, saranno le protagoniste di un itinerario diviso in dodici sezioni tematiche.

Apre il percorso espositivo il prezioso volume della Dissertatio medica de ΝΟΣΤΑΛΓΙΑ, proveniente dalla Biblioteca dell’Università di Basilea (Svizzera), nella quale l’alsaziano Johannes Hofer, giovane laureando in medicina a Basilea, identificò nel 1688 una nuova patologia clinica, classificando i malesseri fisici e psichici patiti dai soldati svizzeri durante le trasferte militari come conseguenza ed effetto della loro lontananza da casa. Il termine nostalgia – da lui coniato unendo due radici di origine greca, nóstos (ritorno) e algos (dolore) – cominciò tuttavia a perdere progressivamente l’originaria connotazione medica e a far più in generale riferimento, soprattutto a partire dall’Ottocento, a stati di sofferenza determinati da forzati e dolorosi allontanamenti (da qualcosa o da qualcuno) e al disagio che si prova quando, costretti a vivere in un determinato tempo e luogo, si ritorna con struggimento al passato o a un altrove idealizzato.

Nonostante l’individuazione di tale sentimento risalga all’età moderna, la nostalgia fu presente nell’antichità nelle figure epiche e mitologiche di Odisseo, Enea, Demetra e Persefone e nei testi poetici e letterari di Dante, Foscolo, Byron, Leopardi e Proust, così come nelle vedute dei ruderi romani di Giovanni Battista Piranesi e nelle opere politiche di Giuseppe Mazzini. Molto spesso il concetto di nostalgia si sovrappone a quello di malinconia, che tuttavia rappresenta una condizione di tristezza patologica la cui definizione, invece, ha un’origine antica e una precisa corrispondenza astrologica, come illustrato in mostra dalla celebre incisione di Albrecht Dürer, Melancolia I (1514), affiancata da alcune versioni moderne di tale sentimento.

I temi affrontati all’interno della mostra abbracciano le diverse espressioni della nostalgia e oltrepassano il concetto di linearità temporale: la nostalgia di casa, dalla servitù d’Israele in Babilonia ai grandi fenomeni migratori a cavallo tra Otto e Novecento e della contemporaneità; la nostalgia del paradiso che, presente nell’iconografia cristiana medievale e  nella tradizione mussulmana, è stata d’ispirazione per l’ideazione di sontuosi giardini e di vedute bucoliche e agresti; la nostalgia del classico, alimentata dal vedutismo settecentesco e dalle rovine all’epoca del Grand Tour, fonte poi di ispirazione artistica per le ricerche espressive degli anni tra le due guerre; la nostalgia nell’età della propaganda, dalle esperienze del nazionalismo romantico a cavallo tra Otto e Novecento all’artificiosa narrazione storica delle ideologie totalitarie, contraddistinta dall’avversione verso la modernità e dall’aspirazione a guardare a un passato idealizzato; la nostalgia dell’antico con l’attrazione di alcuni eccentrici personaggi, tra cui Frederick Stibbert e Evan Mackenzie, verso modelli di gusto di epoche lontane; la nostalgia dell’altrove, connesso al fenomeno dell’esotismo, ispirato dal mistero di terre ignote e lontane; gli sguardi della nostalgia interpretati dalle espressioni femminili  per gli affetti perduti o per esperienze esistenziali irrimediabilmente legate al passato; la nostalgia della felicità: struggimento per un tempo che rimanda ai ricordi dell’infanzia e, più in generale, a sereni istanti del nostro vissuto; la nostalgia dell’infinito, quel particolare sentimento che, scaturito in epoca romantica nell’incontro con la grandiosità della natura e del cosmo, ha continuato a ispirare sino ai giorni nostri l’appassionato dialogo tra l’uomo e la grandiosità dell’universo.

Tra gli artisti in mostra: Giacomo Balla, Pompeo Batoni, Benedetto Bembo, Leonardo Bistolfi, Amedeo Bocchi, Giovanni Boldini, Frank William Brangwyn, Armando Brasini, Jan Bruegel il Giovane, Anselmo Bucci, Michele Busiri Vici, Giacomo Antonio Caimi, Duilio Cambellotti, Felice Carena, Athos Casarini, Gisberto Ceracchini, Galileo Chini, Sexto Canegallo, Gino e Adolfo Coppedè, Giorgio De Chirico, Evelyn De Morgan, Fortunato Depero, Filippo De Pisis, Luigi De Servi, Gustave Doré, Albrecht Dűrer, Ferruccio Ferrazzi, Lucio Fontana, Raffaello Gambogi, Pietro Gaudenzi, Franco Gentilini, Luca Giordano, Francesco Hayez, Florence Henri, Jean Auguste Dominique Ingres, Boris Iofan, Yves Klein, Anish Kapoor, Edwyn L. Lutyens, Tammar Luxoro, Antonio Maraini, Pompeo Mariani, Arturo Martini, Emile René Ménard, Domenico Morelli, Gerhard Munthe, Arturo Nathan, Adrian Paci, Renato Paresce, Alberto Pasini, Giovanni Battista Piranesi, Gio Ponti, Gregorio Prieto, RAM (Ruggero Alfredo Michahelles), Ivo Saliger, Giulio Aristide Sartorio, Ruggero Savinio, Ettore Spalletti, Ettore Tito, Giacomo Trècourt.

Orari

da martedì a venerdì, ore 11 – 19; sabato e domenica ore 10 – 19
la biglietteria chiude alle ore 18

Biglietto 

intero 14€; ridotto 12€

possessori della Membership Card Ducale+: 10€

giovani dai 6 ai 18 anni: 5€

under 27, il martedì (escluso i festivi): 5€

gruppi, massimo 25 persone: 13,50€

gruppi scuole (minimo 10 – massimo 25 studenti): 5€ 

Progetto di allestimento e direzione lavori

Corrado Anselmi, Milano

con Laura Merrone

Immagine coordinata e grafica allestimento

Bruno Stucchi, Dinamomilano

Catalogo

Electa edizioni

DIDATTICA E LABORATORI

Progetto speciale

Cantare la nostalgia

La nostalgia riecheggia in alcune delle pagine più belle della letteratura di tutti i tempi. Omero, Virgilio, Dante, Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli, Jean-Jacques Rousseau, Sigmund Freud, Albert Camus sono solo alcuni degli autori con cui i partecipanti dovranno confrontarsi per creare un percorso di parole che faccia da contrappunto alle immagini esposte in mostra. La registrazione delle loro voci sarà fruibile attraverso semplici qr-code.

Il progetto può essere fruito come PCTO — Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento

Percorso in mostra + laboratorio breve

Ricordi intrecciati

Un breve percorso della durata di 45′ attraverso le dieci sezioni in cui si articola la mostra e che ci permettono di approfondire il sentimento della nostalgia in tutte le sue declinazioni con lo sguardo che in tempi e in modi diversi gli artisti hanno dato. A seguire in laboratorio si avranno a disposizione fotografie, immagini e vecchie cartoline, tutte rigorosamente in bianco e nero, supporti su cui aggiungere, con ago e filo, intrecci colorati per trasformare e attualizzare le memorie del passato in una grande tessitura collettiva.

Scuola infanzia, primaria e secondaria di I e II grado

Laboratorio

Profumo di madeleine

Vi è mai capitato di sentire un profumo e d’improvviso veder riaffiorare ricordi lontani? La fragranza di un fiore di un pomeriggio in campagna o l’aroma intenso di focaccia di una colazione in vacanza: vere e proprie scintille sensoriali che innescano pensieri e ci fanno partire in un viaggio tra i ricordi. Un laboratorio in cui, seguendo l’esempio magistralmente descritto da Proust in occasione dell’assaggio della petite madeleine, e avendo a disposizione vasetti con spezie, scorze d’arancio e limone, erbe aromatiche, chicchi di caffè e candele, si annusa e si annotano i pensieri che emergono da odori già sentiti, in modo spontaneo ed immediato, creando un campionario di ricordi.

Scuola infanzia, primaria e secondaria di I grado

Tutti i giorni – Durata: ca. 1h30’

Costo: 7€ + 5€ a studente

Visite guidate

Visita guidata alla mostra

Percorsi articolati per rispondere alle esigenze delle diverse età dei partecipanti sono realizzati in modo da consegnare agli studenti le corrette chiavi di lettura della mostra.

Possono essere richieste anche in lingua.

Durata 1h

Costo visita guidata in italiano: 90 € a classe (max 25 studenti) + 5 € ingresso in mostra (a studente)

Costo visita guidata in lingua: 100 € a classe (max 25 studenti) + 5 € ingresso in mostra (a studente)

Visita guidata alla mostra + percorso in città

La proposta si articola in due percorsi a scelta: Genova medioevale, da San Lorenzo a San Matteo; Genova e il sistema dei Palazzi dei Rolli, Patrimonio dell’Umanità Unesco.

Durata complessiva 2h30’ – giornata e orario da concordare direttamente al momento della prenotazione

Costo: 150 € (max 25 studenti) + 5 € ingresso in mostra (a studente)

Info e prenotazioni

prenotazioniscuole@palazzoducale.genova.it – telefono 0108171604 (martedì e giovedì, ore 11-13; mercoledì e venerdì, ore 14-16).

Alcuni laboratori possono essere realizzati anche a domicilio presso le sedi scolastiche, secondo modalità da concordare di volta in volta.

NOSTALGIA. ICONOGRAFIA DI UN SENTIMENTO

Matteo Fochessati

Nel 1688 quando Johannes Hofer, grazie ai buoni auspici del professor Johann Jacob Harder, pubblicò a Basilea la sua tesi di laurea dedicata alle sofferenze fisiche e psicologiche patite dai mercenari svizzeri, ma anche da domestici emigrati e da studenti fuorisede, sicuramente non poteva prevedere che la nuova patologia da lui individuata avrebbe accompagnato l’umanità in tutti gli anni a venire, diventando una delle principali sindromi della modernità: una condizione che sembra aver assunto un aspetto epidemico nel XXI secolo e «alla quale ciascuno di noi non può non andare incontro negli snodi infiniti della vita» . 

Per definire questa inedita patologia Hofer dovette inventare, come era pratica comune all’epoca, un nuovo vocabolo. Il termine da lui coniato e anteposto ad altre definizioni, come nostomania o philopatridomania (la mania che scaturisce dall’amore per la patria), derivò dall’unione di due parole di origine greca: nóstos (ritorno) e algos (dolore o tristezza). Nonostante la sua progressiva diffusione in campo medico, tale definizione, che andava a sostituire il termine tedesco Heimweh(mal di casa o mal di patria) comparso per la prima volta in Svizzera nel 1569 «pensando al dolore prodotto dalla perduta dolcezza della patria», fu sin da subito sottoposto, data l’intrinseca complessità semantica della nostalgia, a un serrato confronto con un’ampia varietà di alternative linguistiche. Già nella prima riedizione del testo, pubblicata nel 1710 all’interno di una raccolta di studi medici curata da Theodhor Zwinger, la parola nostalgia fu sostituita con il termine pothopatridalgia (il dolore per il desiderio della patria), con il quale si rimarcava la causa scatenante della patologia: la sofferenza suscitata dalla lontananza dal suolo natio, cui Cristoforo Marzaroli diede forma nella scultura Nostalgia (1864), ispirata ai versi composti dal patriota Jacopo Sanvitale (Parma 1785 – Fontanellato 1867) durante l’esilio in Francia: «Mi cacciò la tempesta al vostro lido. / Non canto io no, ma strido / lungi dal nido. Voi siete in festa, e lo mio spirito è fosco:/ augel d’estranio bosco; non vi conosco».

L’espressione coniata da Hofer e rimasta di uso corrente fu in seguito abbinata ad altri termini con specifiche declinazioni nazionali, come mal du payshomesickness o saudade, che contribuirono all’evoluzione del concetto di nostalgia dall’ambito medico a quello dei sentimenti. E proprio tale pluralità linguistica è stata così riletta da Milan Kundera nel romanzo L’ignoranza: «La nostalgia è […] la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare. Per questa nozione fondamentale la maggioranza degli europei può utilizzare una parola di origine greca (nostalgianostalgie), poi altre parole che hanno radici nella lingua nazionale: gli 

spagnoli dicono añoranza, i portoghesi saudade. In ciascuna lingua queste parole hanno una diversa sfumatura semantica. Spesso indicano esclusivamente la tristezza provocata dall’impossibilità di ritornare in patria. Rimpianto della propria terra. […] Ma è una riduzione spaziale di questa grande nozione. Una delle più antiche lingue europee, l’islandese, distingue i due termini: söknudur: “nostalgia” in senso lato; e heimfra: “rimpianto della propria terra”. Per questa nozione i cechi, accanto alla parola “nostalgia” presa dal greco, hanno un sostantivo tutto loro: stesk, e un verbo tutto loro; la più commovente frase d’amore ceca: stýská se mi po tobě: “ho nostalgia di te”; “non posso sopportare il dolore della tua assenza”».

Tornando ora alla diagnosi della nostalgia, tale patologia fu individuata da Hofer –  basandosi sulle recenti scoperte della moderna neurologia – in un’epoca in cui la percezione del tempo, come prosecuzione di un pensiero maturato nel Rinascimento, si era ormai secolarizzata sulla contrapposizione tra il tempo lineare della tradizione giudaico-cristiana e quello ciclico del paganesimo. Ogni analisi sulla nostalgia deve pertanto essere opportunamente inquadrata all’interno di una storia del tempo, di cui l’epoca moderna ci ha offerto molteplici interpretazioni, non tutte necessariamente afferenti a un senso unidirezionale. E ogni forma esperienziale di connessione tra passato, presente e futuro deve confrontarsi con la condizione di irreversibilità e irripetibilità del tempo che, determinante nel provocare le sofferenze dei nostalgici, fu investigata nel 1915 da Sigmund Freud nello studio Caducità

La dissertatio di Hofer vide inoltre la luce in un periodo storico connotato da una forte crescita dei centri urbani, verso cui moltitudini di abitanti della campagna convergevano alla ricerca di lavoro, diventando così potenziali soggetti della nostalgia, alla stregua dei militari che, mobilitati dalle nuove norme del reclutamento di massa, erano destinati a un rigido inquadramento all’interno dei nascenti eserciti moderni. E se i soldati risultavano i soggetti più vulnerabili rispetto agli attacchi di nostalgia, come attestato dalla diffusione dei casi tra i militari russi durante le operazioni belliche in Germania nel 1733 o tra quelli napoleonici durante la campagna di Russia, diversi studi su tale fenomeno concordavano sul fatto che il mal du pays colpisse in genere le fasce sociali meno istruite, confermando così l’opinione che la frequenza delle manifestazioni nostalgiche era inversamente proporzionale al grado di civilizzazione. Lo stesso Immanuel Kant nell’Antropologia dal punto di vista pragmatico (1798) sostenne che i soggetti più predisposti alla nostalgia non appartenevano a classi sociali connotate da un consapevole impegno nelle proprie attività professionali o dall’abitudine a viaggiare, ma in quelle più povere, disagiate e stanziali, i cui membri vivevano isolati e vincolati da stretti legami famigliari. 

Il desiderio di casa, la «tristezza ingenerata dall’ardente brama di ritornare in patria», sviluppava così una mania ossessiva che, scatenata dalla «idea esclusiva e persistente del ritorno», presentava un caratteristico decorso fisiologico e sintomi distintivi, quali febbre, stati d’agitazione, tristezza, insonnia, battito cardiaco irregolare e un deficit di attenzione determinato dalla compresenza tra un forte eccitamento interno e un’apatia esterna. 

Le terapie generalmente adottate per la nostalgia erano – secondo le modalità del tempo – purghe, salassi, emetici o l’oppio e il laudano, ma la cura considerata più efficace restava comunque il ritorno a casa. Tuttavia, alla fine del XVIII secolo la scienza clinica scoprì che non sempre il ritorno in patria poteva alleviare il sintomo. Nel frattempo, più cresceva l’interesse della medicina per tale patologia e per le sue possibili cure, più sembrava aumentare il proliferare dei casi; ma nel momento in cui la nostalgia cominciò a trasformarsi da disturbo trattabile a malattia incurabile, le sofferenze fisiche mutarono in sofferenze dell’anima. Di conseguenza da oggetto clinico divenne argomento di analisi filosofiche e psicanalitiche. 

Con Kant la nozione di nostalgia non fu più solamente identificata attraverso il concetto di spazio (il luogo di cui si sente la mancanza), ma anche con quello di tempo (il periodo in cui si è vissuto felicemente in un luogo, non necessariamente assimilato alla patria): un ambito temporale spesso coincidente con la stagione che precede la vita adulta e che rende pertanto irrealizzabile l’auspicato ritorno.

La consapevolezza dell’impossibilità di recuperare il tempo perduto e l’oggetto dei propri desideri rafforzò in epoca romantica la propagazione di un sentimento nostalgico che non implicava più necessariamente l’idea di nóstos, ma che poteva rimandare al termine tedesco Sehnsucht, citato da Kundera, con il quale si indica il «desiderio di ciò che è assente». Tale privazione (di un amore, dell’infanzia perduta, di ciò che genericamente è passato) poteva addirittura manifestarsi allora per qualcosa che non si era neanche mai vissuto, generando il desiderio di un desiderio: la nostalgia della nostalgia. 

NOSTALGIE

Nella storia della nostalgia il mito di Ulisse è considerato il paradigma universale di una condizione determinata dal dolore per l’impossibilità del ritorno. L’Odissea non rappresenta infatti «[…] la storia di un sentimento di struggimento nostalgico individuale e di conseguente ritorno ai valori familiari. Si tratta piuttosto di una parabola sulla sorte umana». E come riflesso di un sentimento collettivo, la nostalgia nel poema omerico salda in un unico flusso diversi piani temporali, integrando i ricordi, grazie ai quali l’eroe greco è in grado di affrontare le avversità che ostacolano il suo ritorno verso casa, con la futura finalità progettuale delle sue azioni. 

Un’analoga compresenza tra passato e futuro connotava anche, non a caso, la sequenza narrativa del film di Franco Piavoli Nostos (1989), moderna rivisitazione dell’epopea omerica che, punteggiata da rari dialoghi in un linguaggio d’invenzione costruito su antichi idiomi mediterranei, intercalava il racconto del tormentato viaggio di un guerriero verso casa con il persistente affiorare dei suoi nostalgici ricordi famigliari e dei rimorsi per gli eccidi compiuti.

Se l’universalità della condizione di esule di Ulisse ha trovato una suggestiva rappresentazione ne L’ Odyssée (1827-1850) di Jean Auguste Dominique Ingres, in cui il pittore francese riprese il modello iconografico della personificazione del poema omerico raffigurata nel 1827 nella sua monumentale tela Apoteosi di Omero per il Louvre di Parigi, il tema della nostalgia si ritrova in tutte le opere ispirate al cruciale episodio narrato nel quinto canto dell’Odissea. È questo il momento in cui Calipso, pressata dagli Dei, acconsente a por fine alla lunga permanenza di Ulisse nell’isola di Ogigia e, recatasi da lui per annunciargli il suo consenso a 

partire, lo trova seduto di fronte al mare che piange ripensando a Itaca e ai suoi affetti lontani. Tale scena raffigurata da Arnold Böcklin nel dipinto Odisseo sulla riva del mare (1866-1868), ripreso in seguito da Giorgio De Chirico nell’Enigma dell’oracolo (1910), è rievocata in un’altra sua opera: l’Autoritratto come Odisseo (1922-1924), che non rappresenta solo un’esemplare interpretazione del sentimento del nóstos, ma anche una suggestiva riflessione sul rimpianto per la perduta antichità. 

Il viaggio di Ulisse può anche essere considerato, infatti, come un rimando a quell’aspirazione alla grecità perduta (e vagheggiata come luogo originario di tutti i miti) che guidò Lord Byron a recarsi, a sostegno della lotta d’indipendenza contro i turchi, in terra ellenica, trovando la morte a Missolungi il 19 aprile 1824. E proprio in occasione di questa sua ultima avventura, il poeta compose il 22 gennaio di quello stesso anno una lirica intrisa di nostalgia, On this day I complete my thirty-sixth year, che così recitava: «Se rimpiangi la tua giovinezza, perché vivere? / La terra della morte onorevole / è qui – vai al campo! E dai / via il tuo respiro». 

L’idealizzazione della classicità aveva peraltro già trovato un’affascinante rappresentazione nelle visionarie vedute dedicate da Giovan Battista Piranesi alle architetture e al monumentale impianto urbanistico dell’antica Roma: la seduzione decadente e malinconica delle sue rovine evocava infatti lo splendore e la magnificenza di un glorioso passato, ma al tempo stesso tali vestigia – ruderi di un mondo che fu, come recita il titolo dell’opera di Federico Cortese in mostra –  suscitavano anche, nel loro rovinoso degrado, una cupa riflessione sull’inesorabile azione corruttiva del tempo. 

Se le radici famigliari e l’attaccamento al luogo natio appaiono strettamente connessi con l’interpretazione mitica della nostalgia, il destino di Enea rappresenta l’esatto contrario di quello di Ulisse. Nel poema omerico, concentrato sul nóstos e sulla narrazione dei drammatici intralci a questo lungo ritorno, Odisseo si presenta saldamente ancorato all’aspirazione di ritornare in patria: il suo compito è ricordare quanto ha perduto e ritrovarlo. 

Portando sulle spalle il padre Anchise durante la fuga da Troia data alle fiamme dagli Achei – come raffigurato nel dipinto di Pompeo Batoni – il protagonista del poema virgiliano simboleggia invece l’eroe che carica su di sé il fardello di una missione imposta dal fato. Con la caduta di Troia e l’allontanamento dalla sua terra natale Enea non può infatti indulgere al vagheggiamento di un ritorno, ma deve predisporsi alla conquista di una patria di nuova fondazione. Non può quindi assecondare il richiamo della nostalgia: è obbligato a scordare il passato e a volgere lo sguardo al futuro. 

Il fascino e il dramma di Enea, condannato a cancellare i propri ricordi e le sue radici, risiedono in questa sua ineluttabile condizione di costrizione ai voleri di un destino implacabile. Esule perenne, sradicato dalla sua terra d’origine, in qualche misura rappresenta – nonostante il suo premio sia la conquista di un nuovo regno – l’archetipo della complessa figura del migrante contemporaneo, costretto da guerre, epidemie e povertà a fuggire all’estero, rompendo definitivamente con il proprio passato.

Nel mondo classico il sentimento nostalgico non appare tuttavia vincolato in maniera esclusiva all’idea del nóstos, ma si lega anche al tema della perdita e del lutto: del rimpianto per chi non c’è più. La più emblematica incarnazione di tale condizione nell’universo mitologico è rappresentata da Demetra, dea della fertilità, madre della terra e nume tutelare dei misteri iniziatici di Eleusi e delle celebrazioni del ciclo delle morti e delle rinascite. Dopo il rapimento della figlia Persefone per mano di Ade, Demetra straziata dal dolore – come raffigurata da Evelyn De Morgan in un dipinto connotato dall’ossessiva centralità della figura femminile nella pittura preraffaellita – discende nelle viscere della terra alla sua ricerca. E ottiene così che ogni anno, come il grano, Persefone possa riemergere dagli inferi per trascorrere sei mesi alla luce dell’Olimpo accanto alla madre. 

Nelle sue molteplici manifestazioni e in tutte le epoche la nostalgia è stata una potente ispirazione per i versi e le prose di poeti e scrittori: da Dante Alighieri a Marcel Proust che, «lacerato dalla nostalgia» come ha scritto Walter Benjamin, riuscì in maniera esemplare a dare forma, attraverso la ricerca del tempo perduto, al sentimento della nostalgia.  

Nell’opera di Dante si ritrova innanzitutto il nostalgico rimpianto dell’esule forzatamente costretto ad abbandonare la patria e gli affetti, come ricordato dalla famosa terzina «Era già l’ora che volge il disio / ai navicanti e intenerisce il core / lo dì c’han detto ai dolci amici addio» e dal dipinto di Tammar Luxoro raffigurante il poeta durante una sosta sulle rive dell’Entella, nel corso del suo peregrinare per l’Italia. Nei canti dell’Inferno Dante intrecciò tuttavia la sua personale nostalgia con i rimpianti dei dannati per la trascorsa vita terrena. Le anime che incontra durante l’attraversamento dell’Ade, in compagnia di Virgilio, mantengono infatti, pur tra i supplizi a loro inflitti, una viva reminiscenza della loro passata esistenza. E tra i suoi colloqui con le anime perdute memorabile resta quello con Paolo e Francesca che, alla richiesta di Dante di raccontargli la sua vicenda, esordisce col celebre verso «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria».

Nel XIX secolo la cultura romantica, come già accennato a proposito di Lord Byron, cominciò a coltivare la nostalgia anche come espressione del sentimento di perdita della giovinezza, delle gioie e delle occasioni offerte dalla vita. In tale epoca, tuttavia, si iniziò pure a evocare tra i patrioti italiani una condizione di struggimento per l’incompiuta unità nazionale e di desiderio per una terra promessa alla quale fare ritorno dall’esilio, a cui tanti di loro erano stati destinati. 

Raffigurato nel 1813 in un celebre ritratto di Francois-Xavier Fabre, Ugo Foscolo è stato il principale cantore di tali sentimenti: in particolare nella lirica A Zacinto, nota anche con il titolo Né più mai toccherò le sacre sponde, che il poeta dedicò all’isola (conosciuta pure come Zante), dove era nato e che non avrebbe più rivisto, essendosi lui stesso autoesiliato dopo la cessione da parte di Napoleone agli Austriaci della Repubblica di Venezia e dei suoi possedimenti. In tale poema Foscolo paragonò la sua condizione a quella di Ulisse, ricordando però che l’eroe greco era stato più fortunato di lui, poiché era potuto tornare nella sua amata Itaca, mentre il suo destino – una «illacrimata sepoltura» in terra straniera – appariva ormai segnato.

Assurta ad affezione attinente agli espatriati politici, costretti a vivere all’estero in una dolorosa condizione di sradicamento, la nostalgia, in quanto espressione di un sempre più diffuso sentimento nazionalistico, cominciò dunque a essere valorizzata come modello di amor patrio. E proprio nel contesto di tali istanze patriottiche per definire la nostalgia si cominciarono a coniare nuovi termini linguistici, connotati in genere dall’intraducibilità in altri idiomi e da precipui riferimenti nazionalistici.

In quest’epoca i romantici «idearono una geografia affettiva della propria madrepatria che spesso rispecchiava il paesaggio melanconico della loro psiche»: una fisionomia culturale che si ritrova nella personalità e negli scritti di Giuseppe Mazzini, influente esponente della comunità degli esuli politici italiani, raffigurato con espressione mesta e inquieta sullo sfondo carminio di un tramonto infuocato, nel ritratto eseguito a Londra da Emilie Ashurst Venturi, devota discepola del pensatore repubblicano e traduttrice in inglese delle sue opere.

La nostalgia pervade infine tutta l’opera poetica di Giacomo Leopardi. Nei suoi versi la dimensione mnestica delle rimembranze risuona infatti come amaro rimpianto per l’irrevocabile passare del tempo: «Qui non è cosa / Ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro / Non torni, e un dolce rimembrar non sorga. / Dolce per sé; ma con dolor sottentra / Il pensier del presente, un van desio / Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui». Nel poeta recanatese tale struggimento determinò, attraverso il filtro di una modalità esperienziale scaturita dalla tensione lirica dei suoi componimenti, una fondamentale identificazione tra vita e creazione letteraria che assurse, nel suo caso, a realtà sostitutiva della pratica esistenziale. 

MELANCONIA

Sovente il concetto di nostalgia sembra potersi sovrapporre alla condizione melanconica, che già in Hofer appare «ora causa, ora sintomo della nostalgia». 

La melanconia, tuttavia, rappresenta una condizione di tristezza patologica la cui definizione, rispetto alla nostalgia, ha un’origine antica e una precisa corrispondenza astrologica con il pianeta Saturno. Così ci appare almeno nella celebre ed ermetica incisione di Albrecht Dürer, Melencolia I o Melancholia I (1514). In tale opera Erwin Panofsky, riferendosi alla teoria dei quattro umori, individuò la rappresentazione dell’umore malinconico, corrispondente alla terra, all’autunno, alla sera e all’età matura dell’uomo, e rilevò come la figura al centro della scena (dominata da un senso di disordine e incompiutezza, emblematicamente simboleggiato dall’edificio in costruzione) apparisse soggiogata da un’aura di insensatezza e inquietudine esistenziale e da un malessere paralizzante che le impediva di sottrarsi alle sue cupe riflessioni. 

Considerata originariamente un’affezione tipica degli intellettuali (monaci e filosofi) e afferente quindi una ristretta cerchia elitaria, la malinconia appare strettamente vincolata a una dimensione individuale, differenziandosi dunque dalla nostalgia che, diffusa in ampi settori della popolazione, si presenta come espressione di un sentimento sociale, collettivo e, si potrebbe dire, “democratico”. 

Agli inizi del Novecento Freud dedicò il breve saggio Lutto e melanconia (1915) alla connessione tra questo sentimento e gli effetti del lutto, che nella sua intrinseca dimensione di mistero rappresentava, a suo modo di vedere, il campo privilegiato per l’arte e la poesia. In tale ottica va approntata la lettura di un’opera come L’isola dei morti, replica del celebre dipinto Die Toteninseldi Arnold Böcklin (1886), che Otto Vermehren dipinse, presumibilmente in Toscana, i primi del Novecento. Connotato da una cornice a edicola in stile neorinascimentale, il quadro rappresentava un omaggio a questa celebre icona del gusto e della sensibilità figurativa simbolista che, influenzata dal pensiero di Nietzche, fu accolto, nelle sue varie versioni, da un clamoroso successo internazionale. La melanconica sublimazione della morte di Böcklin stimolò infatti una grande massa di copisti e imitatori e ispirò le ricerche di alcuni tra i principali esponenti del mondo della cultura e dell’arte del Novecento. Tra i suoi più fedeli seguaci si deve appunto ricordare Vermerhenil quale, trasferitosi a Firenze nel 1900, ebbe finalmente l’opportunità di frequentare il maestro tedesco, spentosi l’anno successivo nella sua Villa Bellagio a San Domenico di Fiesole.

NOSTALGIA DI CASA

Il desiderium patriae e lo struggimento per il ricordo di Roma – la città d’origine che, insieme ai suoi affetti e alle sue amicizie, aveva dovuta abbandonare per recarsi in esilio a Tomis, l’attuale Costanza, sulle coste del Ponto – furono ossessivamente evocati da Ovidio nei Tristia e nelle Epistulae ex Ponto. Non è dunque un caso che Johann Wolfgang von Goethe abbia concluso citando l’ultima notte di Ovidio il suo Viaggio in Italia (1816-1817), testo di riferimento per gli habitué del Grand Tour, che rappresentò a sua volta un’esperienza strettamente connessa al tema della nostalgia. 

Come emerge dal romanzo di Ermanno Rea, recentemente trasposto al cinema da Mario Martone (2022), in cui la nostalgia domina il protagonista e ne determina tragicamente le scelte esistenziali, tale sentimento rende stranieri in patria e fuori patria, dove il richiamo della terra natia è sempre stato ancora più struggente per esuli, migranti e rifugiati, lungo tutta la storia dell’umanità. Durante la schiavitù degli ebrei in Babilonia – raffigurata nel dipinto di Giacomo Antonio Caimi con allusivi rimandi patriottici, secondo un filone alla moda in epoca risorgimentale – il popolo di Sion appese infatti le proprie cetre ai salici, poiché la deportazione in terra straniera rendeva impossibile, come riportato dal Salmo 136 della Bibbia, cantare inni di gioia.

Nella tela che Raffaello Gambogi donò nel 1896 al Comune di Livorno sono invece raffigurati, con realistica rappresentazione dell’ambiente (il Porto Mediceo della città labronica), gli attimi che precedevano l’imbarco di un gruppo di emigranti sui bastimenti in partenza verso il Nuovo Mondo. E proprio la tristezza di chi si accinge a partire (evocata nel dipinto di Luigi Selvatico Partenza mattutina), ma anche il doloroso commiato di chi resta, come simbolicamente effigiato nel celebre trittico degli Stati d’animo di Umberto Boccioni, rappresentano il primigenio manifestarsi di una futura condizione di nostalgia.

La nostalgia di casa trova pure espressione nel contrapposto rimpianto per lembi della propria patria perduti a seguito di un conflitto (il dolore nostalgico delle giovani tirolesi raffigurate da Thomas Walch) o per le terre non ancora redente: quel desiderio della Riva Lontana, 

plasticamente rappresentato nella sensuale allegoria femminile del Monumento a Giuseppe Zanardelli di Leonardo Bistolfi. 

È infine la moderna condizione di sradicamento dei migranti contemporanei ad alimentare la più dolorosa forma di nostalgia che, come simboleggiato dall’opera di Adrian Paci, vincola queste misere esistenze, eternamente in transito, a una condizione permanente di incertezza e incompletezza e alla «perdita di ogni protezione o direzione: invisibilità della meta, e dell’origine». Una nostalgia come «sofferenza dell’ignoranza. Tu sei lontano, e io non so che ne è di te. Il mio paese è lontano e io non so cosa succede laggiù» .

NOSTALGIA DEL PARADISO

Come afferma Proust in tutta la Recherche i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduto. Sin dall’antichità la nostalgia del paradiso ha contagiato infatti l’umanità, alimentando la suggestione del ritorno alla remota e originaria età dell’oro descritta da Esiodo ne Le opere e i giorni, durante la quale una «aurea stirpe di uomini mortali […] come dèi passavan la vita con l’animo sgombro da angosce […] tutte le cose belle essi avevano: la terra feconda recava i frutti, spontaneamente, in gran copia, senza risparmio; essi quindi contenti e tranquilli si godevano i beni, con molte fonti di gioia»: una condizione edenica riadattata successivamente dalla dottrina cristiana ed evocata con intenso struggimento dal libro della Genesi

Questa felice era primigenia, in cui l’uomo primordiale viveva in beatitudine e in armonia con la natura ha rappresentato il principale prototipo del concetto di paradiso, coltivato dall’immaginario collettivo e rielaborato poi attraverso simboliche forme terrene per lenire il sentimento di nostalgia scaturito dalla sua irrimediabile perdita. La dimensione ultraterrena del paradiso ha infatti trovato, nel corso della storia dell’umanità, un puntuale rispecchiamento nell’idea di giardino, inteso come un ambiente chiuso e protetto, rispetto alle imperfezioni del mondo esterno, in cui provare a  ripristinare idealmente l’originaria felicità perduta.  

Dal giardino di Alcinoo nell’isola dei Feaci, descritto nell’Odissea, ai giardini pensili di Babilonia, celebrati come una delle Sette Meraviglie del mondo, passando attraverso il parco reale di caccia e piacere di tradizione persiana (pairi-daēza, da cui il greco paraideisos) e il locus amoenus dei Campi Elisi, sino ad arrivare all’hortus conclusus della tradizione cristiana, simbolo della verginità di Maria nella sua veste di intermediaria tra la terra e il cielo, il giardino nella sua identificazione con il Paradiso è sempre immaginato come un ambiente ricco d’acqua, con una natura lussureggiante e fertile di fiori e frutti, abitata da fiere mansuete, in una dimensione di eterna primavera, come raffigurato nel dipinto di Jan Brueghel il Giovane del 1640 circa.

La concezione dell’orto come spazio fondativo della Chiesa, incarnato dalla figura di  Cristogiardiniere che, dopo la resurrezione, appare a Maria Maddalena nel giardino di Giuseppe 

d’Arimatea, assurse tra gli ordini monastici a immagine allegorica del paradiso eterno, di cui le regole delle comunità religiose rappresentavano un’ideale anticipazione. 

Un’intensa raffigurazione di questi temi è proposta nel dipinto di Benedetto Bembo Madonna dell’Umiltà e angeli, databile tra il 1450 e il 1455, in cui la Vergine – umile perché raffigurata seduta a terra (sull’humus) – rappresenta, insieme al figlio che le siede in grembo, il presagio del ritrovamento del paradiso perduto. Il segno di questa rinnovata fioritura dell’Eden è indicato dal prato fiorito in primo piano, in cui si distingue un fiore simile all’aquilegia che, a causa dell’assonanza del suo nome in francese, ancholie, con il suono della parola mélancolie, allude secondo Panofsky alla malinconia, qui vissuta come preveggenza del destino inesorabile di Cristo Salvatore. Ma pure il tappeto da preghiera di manifattura egiziana con disegno di carattere architettonico, riferibile alla “Porta del Paradiso” , rimanda, nella sua decorazione floreale, all’idealizzazione edenica della religione mussulmana, espressa dall’immagine di un giardino in cui scorrono fiumi di miele, latte, vino e acqua dolce, dove gli alberi offrono cibi preparati e, come promesso dal Corano nella Sura IV delle Donne, fanciulle sempre vergini saranno offerte ai fedeli.  

Tale concezione spirituale, alimentata dalle suggestioni suscitate dai favolosi giardini descritti da Marco Polo nel Milione o dal giardino incantato raccontato da Chrétien de Troyes nel romanzo Erec et Enide (1170), confluì – in un processo di progressiva laicizzazione culturale – nell’ideazione dei giardini europei moderni, ispirati sempre al concetto di una rinnovata armonia tra uomo e natura. Analogamente il rimando a un ideale arcadico, come riflesso di una remota età dell’oro, trovò espressione, in diverse epoche storiche, in un genere paesaggistico caratterizzato da ambientazioni bucoliche ed elegiache, come riscontrabile in mostra nei dipinti di Sinibaldo Scorza, Renato Parescee Ferruccio Ferrazzi, il cui purissimo nitore della sua veduta di Tivoli si pone in dialogo con la luminosità e la limpidezza dei colori della moderna rappresentazione di RAM (Ruggero Alfredo Michahelles) della magica isola di Citèra, sede in mezzo a suntuosi giardini del tempio di Venere. 

La nostalgia di una natura addomesticata e piegata al disegno umano ispirò anche, nel corso dei secoli, vedute pastorali improntate a una felicità perfetta e duratura, come nelle idilliache scene campestri di Felice Carena e di Gisberto Ceracchini, concepite nell’inquieta temperie degli anni tra le due guerre come una sospirata evasione dal clima di incertezza dell’epoca. E in questo rifiuto della realtà quotidiana, che sottendeva un nostalgico rimpianto verso sublimi immagini di serenità e armonia, tali opere riproponevano, in chiave moderna, il messaggio scaturito dal mito del buon selvaggio. Ispirato al pensiero filosofico di Jean Jaques Rousseau, questo ideale confluì nella narrazione romanzesca di Paul et Virginie, celebre opera letteraria di Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre pubblicata nel 1788, in cui si narrava la storia di due giovani cresciuti nella natura incontaminata di un’isola delle colonie francesi, lontano dall’egoismo e dai costumi corrotti della società europea. 

NOSTALGIA DEL CLASSICO

Da Goethe a Friedrich Schiller, da Novalis a Friedrich Nietzsche, il mondo classico, vagheggiato come luogo originario di tutti i miti universali, per secoli è stato oggetto di un 

nostalgico gusto per il revival e ha fatto da sfondo, attraverso la vetusta seduzione di ruderi e rovine, agli itinerari dei viaggiatori del Grand Tour.   

I frammenti architettonici delle remote civiltà greco-romane non affascinarono solamente, con la loro pregnante testimonianza di un’epoca remota, le schiere dei colti viaggiatori stranieri che calavano in Italia per farsi ritrarre meditabondi appoggiati a un capitello o a un tronco di colonna, ma improntarono anche, negli anni tra le due guerre, le emergenti ricerche artistiche internazionali, spronate nel 1926 dal rappel à l’ordre di Jean Cocteau.  Rigettando le sperimentazioni espressive dell’avanguardia e l’ottimistica fiducia verso il futuro a essa connessa, gli artisti trasformarono infatti i modelli iconografici e stilistici attinti dalla cultura classica in un nuovo vocabolario linguistico attraverso il quale declinare il cortocircuito tra passato e presente. E sotto l’influenza di significative esperienze internazionali nel campo delle arti visive e dell’architettura – come  Pablo Picasso e Le  Corbusier, per citare due figure paradigmatiche – tali fenomeni coincisero in Italia con i principali raggruppamenti artistici allora attivi, come il gruppo di Novecento e la compagine del Realismo Magico, tutti accomunati da un’interpretazione del presente che, filtrata da uno sguardo rivolto al passato, appariva sintonizzata con l’idea di tempo circolare teorizzata da Giorgio De Chirico. 

NOSTALGIA NELL’ETÀ DELLA PROPAGANDA

La nostalgia intesse uno stretto rapporto con la memoria collettiva e in questo ambito trova voce, nelle sue molteplici espressioni, la propaganda ideologica di quei regimi autoritari che, attraverso la manipolazione e l’idealizzazione del passato, elaborarono una nuova e artificiale narrazione del presente. L’abbellimento del passato è uno dei primi passaggi di questo processo di riadattamento e completamento della memoria che, giocando sulle insoddisfazioni per il presente, induce a sognare il ritorno a una remota età dell’oro. Tale azione si accompagna a una forzatura sui ricordi collettivi in grado di provocare un processo di amnesia su ciò che il passato è realmente stato e ha significato nella vita di un popolo e di creare un miraggio con cui illudersi di poter cambiare la propria esperienza quotidiana. L’incisiva riappropriazione del passato contribuisce pertanto alla costruzione di un presente ideale, ma anche, attraverso un processo di sacralizzazione della realtà codificato dalla religione civile della politica nazionale, a offrire nuove e ottimistiche prospettive per il futuro. 

All’interno di questa chiave di lettura va interpretata la portata evocativa del monumentale dipinto di Pietro Gaudenzi Le portatrici di grano (Il grano), esposto nel 1940 alla seconda edizione del  Premio Cremona : nel formato, nei materiali, nell’impianto iconografico e nella tripartizione dell’immagine il messaggio propagandistico adottava infatti il modello di comunicazione della pittura religiosa, predisponendo, attraverso una trasmissione elementare e diretta, un ampio coinvolgimento pubblico in un mistico rito collettivo.

Nella gestione politica degli stati totalitari il nóstos nazionale è stato in genere rappresentato da un idealizzato concetto di patria che –  attraverso il mito dell’eterno ritorno, di cui i regimi si alimentano in tempi di crisi per contrastare la diffusa miseria economica e la perdita di coesione sociale e di condivisi valori culturali – collima con  una prospettiva edenica, mai realmente vissuta, ma consolidata nell’immaginario collettivo grazie a inedite forme di ritualità civile: primo tra tutti il culto luttuoso per i martiri della nazione. 

Diventando espressione dell’utopica nostalgia per un’artificiosa idea di passato, la propaganda politica offre dunque una dimensione mitica a cui aggrapparsi: un messaggio di semplificazione del presente, in cui si auspica il ritorno a definite identità di genere e a distinte gerarchie di razza, come esemplarmente attestato dalla enorme mole di sacralizzate immagini di maternità e di gruppi famigliari con numerosa prole, raffigurati nelle opere di propaganda del regime fascista a sostegno delle proprie politiche sociali.

Combinando i diversi piani temporali di presente, passato e futuro, la dimensione utopica della nostalgia appare determinante in quel processo di trasformazione del mondo che Eric Hobsbawm ha definito “l’invenzione della tradizione”. Nella versione “restauratrice” della nostalgia, per riprendere la terminologia coniata da Svetlana Boym, l’azione politica delle dittature tende così a imporre alle nostalgie individuali un canone di adesione collettiva, in grado – attraverso inedite ritualità commemorative e il consolidamento del mito del ritorno alle origini – di rinsaldare la coesione sociale e di contrapporsi allo smarrito senso di sicurezza pubblica. E in tale direzione la nostalgia mostra di affermarsi «come una costruzione sociale, un tratto antropologico che accomuna persone, gruppi, movimenti culturali e politici in cerca di una nuova identità».

Le innumerevoli raffigurazioni di lavori nei campi svolti con attrezzi antiquati e obsoleti, che si ritrovano nell’arte fascista e nazista, si spiegano perciò come il riflesso di un programma politico di salvaguardia di consolidati valori nazionali e di reazione ideologica a un’idea di progresso che tale propaganda presentava come una minaccia ai capisaldi della tradizione.

NOSTALGIA DELL’ANTICO

I modelli operativi messi in atto dalla macchina propagandistica dei regimi dittatoriali del Novecento (ma tutt’ora presenti nei messaggi di persuasione politica delle contemporanee autocrazie) avevano peraltro già iniziato a maturare nel corso della seconda metà dell’Ottocento, con la diffusione del concetto di Heimat, una condivisa posizione di «critica […] contro la distruzione che il mondo moderno e industriale perpetrava nei confronti della natura e delle tradizioni».

Nella progressiva identificazione tra il percorso biografico dell’individuo e la storia della nazione cominciò pertanto a imporsi un sentimento di nostalgia collettivo, determinato dall’angoscia di perdere usanze, linguaggi e comportamenti tradizionali, ritenuti fondamentali per la conservazione integrale della propria identità nazionale. 

Assurta a «tropo centrale del nazionalismo romantico», la nostalgia improntò a cavallo tra Otto e Novecento le espressioni artistiche ispirate a ideali patriottici; in particolare in contesti regionali desiderosi di affermare una propria autonomia culturale: a Barcellona, nell’ambito della cosiddetta Renaixança catalana; a Glasgow, come spinta autonomistica nei confronti della Gran Bretagna; a Helsinki, come strumento di opposizione verso l’aggressiva politica egemonica della Russia, e in Norvegia, dove Gerhard Munthe si schierò a sostegno del movimento nazionalista in lotta per il conseguimento di un’indipendenza politica, perduta dopo la cessione alla Svezia statuita dal trattato di Kiel del 1814. Considerato uno tra i più noti 

illustratori delle saghe locali, Munthe, che viaggiò negli angoli più remoti del paese per documentare le architetture e le forme di arredo originarie del suo paese, fu autore di tavole connotate da uno stilizzato impianto geometrico e da forme piatte che favorivano la loro traduzione in tessuti, come nel caso dell’arazzo Le figlie delle luci del Nord (Aurora Boreale).

In Italia lo spirito del nazionalismo romantico trovò una peculiare interpretazione nella ricerca di Duilio Cambellotti, che per la sua poliedrica esperienza artistica trasse ispirazione dalla campagna romana, con la sua «malia intensa formata di sogni primordiali, di tristezza e d’abbandono». Emblematico in tale ambito appare il suo progetto di allestimento – in occasione della mostra internazionale di Roma del 1911 – per la Capanna dell’Agro Romano, dove furono esposti documenti etnografici e autentici modelli della tradizione agreste realizzati dai contadini.  

Come scrive Svetlana Boym: «Il nuovo scenario della nostalgia venne trattato in un nuovo genere, non come racconto di una presunta convalescenza, ma come romantica storia d’amore con il passato. […] costituito da panorami immersi nella foschia con bei laghetti riflettenti, nuvole di paesaggio e ruderi del Medioevo o dell’antichità. Dove non erano disponibili ruderi originali, ne venivano eretti di artificiali, già mezzo distrutti con estrema precisione, per commemorare il passato reale e immaginario delle nuove nazioni europee».

È nel contesto di quel clima di revival – improntato più a una fantasiosa sensibilità verso i modelli del passato, che a un procedimento di ripresa filologica, come appare evidente in molte delle creazioni dell’epoca: a partire dalle architetture e dagli interni dei Coppedè – che si diffonde in Italia a cavallo tra Otto e Novecento un gusto per l’antico consolidato, in particolare in area toscana, da una generosa committenza anglosassone. 

La nostalgia dell’antico alimentò in tale epoca il sogno di una riappropriazione del passato che – vissuta come ricerca di una propria identità plasmata su remoti modelli culturali, ma anche come proiezione di concrete aspirazioni sul presente e sul futuro – diede vita a diverse forme di elitaria fuga dalla modernità. Tra le esperienze più suggestive in tale ambito si possono ricordare quelle di Evan Mackenzie , dei fratelli Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi, di Gian Giacomo Poldi Pezzoli e di Frederick Stibbert. Accomunati dalla passione collezionistica, tutti loro condivisero la fantasia di inscenare una remota dimensione temporale nelle suntuose cornici dei loro palazzi e castelli ispirati ai modelli artistici e architettonici dell’illustre tradizione artistica italiana. Tuttavia, in questa comune operazione di transfert temporale e di scenografica evocazione del passato, mantennero, attraverso differenti dinamiche esistenziali e professionali, uno stretto contatto con la società del loro tempo e con le moderne trasformazioni allora in atto. Il passato offrì dunque a loro ispirazione per un’incisiva azione sulla contemporaneità, riscattando le potenzialità di quanto poteva rimanere inespresso nel presente e garantendo così una prospettiva di futuro al ruolo della memoria.  

Questo cortocircuito temporale che nel Castello Mackenzie aveva trovato la sua forma esemplare nei dipinti murali eseguiti nel 1909 da Carlo Coppedè e raffiguranti la famiglia dell’imprenditore di origine scozzese abbigliata con costumi d’epoca in un anacronistico corteo rinascimentale, si ritrova con analogo spirito nella Dama a cavallo con corteo 

cavalleresco e nel suo pendant Signore a cavallo con corteo cavalleresco, dipinti nel 1931 da Federigo Angeli, titolare insieme ai fratelli Alberto e Angelo di una bottega attiva a Firenze tra le due guerre. Entrambe le tele, ispirate agli affreschi di Benozzo Gozzoli per la Cappella dei Magi nel palazzo dei Medici a Firenze (1459-1464), furono commissionate dal magnate delle macchine da cucire Franklin Morse Singer per la villa di famiglia Casa Mia a Montecarlo, che appare anacronisticamente raffigurata in alto a sinistra della scena con la dama. 

NOSTALGIA DELL’ALTROVE

Complementare alla nostalgia dell’antico, la nostalgia dell’altrove rispecchia un intenso desiderio per luoghi remoti e sconosciuti come descritto da Charles Baudelaire: «Fumammo a lungo sigari il cui sapore e profumo davano all’anima la nostalgia di paesi e felicità ignote». 

Lo struggente desiderio di conoscere lidi lontani – quella brama che il principe Hermann von Pűckler-Muskau definì con il termine Fernweh – e la curiosità per un inedito confronto con costumi, idiomi e tradizioni dei paesi extraeuropei rispecchiò a partire dai primi dell’Ottocento, in concomitanza con l’espansione coloniale e le grandi scoperte geografiche, il contraddittorio rapporto culturale, mediato da stereotipate convinzioni, che l’Occidente intratteneva con queste remote regioni. Come dichiarato da Edward W. Said: «l’orientalista si sente in dovere di trasformare senza posa l’Oriente in qualcosa d’altro: lo fa per sé stesso, o per la propria cultura, talvolta per quello che ritiene essere il bene degli orientali». 

Non esisteva quindi solo la nostalgia per lande distanti e misteriose, sedimentate nei ricordi di chi aveva avuto l’opportunità di conoscerle, come nel caso di quel sentimento che un tempo si definiva il “mal d’Africa” e di cui fu intriso il celebre romanzo di Karen Blixen, o della prolungata memoria di esperienze eccezionali, come quella vissuta da Galileo Chini durante il suo soggiorno in Siam, dove nel 1911 fu invitato dal re Rama VI a eseguire le decorazioni pittoriche del Palazzo del Trono di Bangkok, progettato dagli architetti Annibale Rigotti e Mario Tamagno e ai cui ornamenti pittorici contribuì pure il pittore piemontese Cesare Ferro. Molto più diffusa tra Otto e Novecento fu una sorta di attrazione nostalgica per luoghi di cui si aveva solamente una conoscenza indiretta e parziale, mediata da materiali d’importazione, come souvenir o manufatti da collezione. 

È questo il caso del critico d’arte Vittorio Pica che, avvicinatosi alla grafica giapponese di cui divenne collezionista grazie all’amicizia con Edmond de Goncourt, scriveva nel volume L’arte dell’Estremo Oriente, pubblicato nel 1894: «Ogni volta che io mi attardo dinanzi a qualcuna di queste meraviglie dell’arte dell’Estremo Oriente […], sento dentro di me acuto il pungolo del dolce mal nostalgico, di cui pure a niun costo vorrei guarire. Come spiegare queste arcane nostalgie, che fioriscono in ispecie nelle anime di coloro che dell’arte e per l’arte vivono? […] 

Lontano, troppo lontano, ahimè! è l’incantevole arcipelago, ed io, come tanti altri, sono condannato a non contemplare quell’adorata plaga che con gli occhi della fantasia. Ma forse è meglio. Chissà se il tanto desiato viaggio nel Giappone non mi procurerebbe una dolorosa delusione? […] No, no, meglio sognare sempre il paese fatato del Sol Levante e non andarci mai […]. Ė soltanto così che si può evitare l’intensa tristezza che ritrovasi fatalmente in fondo ad ogni sogno realizzato!». 

Di fronte a questa urgenza nostalgica – in un’epoca che precede i fenomeni di decolonizzazione e l’emergere di una più consapevole presa di coscienza della complessità culturale del mondo exraoccidentale – sovente ci si adattò dunque alla finzione del travestimento: una pratica in cui spesso si celavano allusioni a personaggi storici o a fatti mediati da fonti letterarie e dalla cronaca recente. È questo il caso del dipinto di Francesco Hayez presentato all’Esposizione di Belle Arti di Brera del 1832 e raffigurante il pittore Carlo Prayer (Milano 1789 – Massa 1832) che, docente all’Accademia di Carrara, finì in disgrazia per le sue supposte idee liberali e, tradito da un amico artista, fu rinchiuso nel castello Malaspina di Massa, dove morì in circostanze misteriose. Il costume turco indossato da Prayer richiamava la figura di Alp, il nobile veneziano passato ai Turchi dopo essere stato condannato dai suoi concittadini per un’ingiusta delazione, protagonista del dramma di Lord Byron L’assedio di Corinto (1816), musicato nel 1826 da Giacomo Rossini. 

A tale idealizzazione classicista e filoellenica corrispondeva, dal punto di vista iconografico, l’Autoritratto in costume orientale di Giacomo Trècourt (1842 circa), mentre differenti forme di orientalismo caratterizzavano i dipinti di Athos Casarini The Great Gagulai (1911) e di Anselmo Bucci La giapponese (Il Kimono) del 1919. Entrambe le opere sembrano rimandare infatti alle atmosfere di quell’esotismo da salotto che connotava la nostalgica ossessione per l’oriente della marchesa Aurora Canale, protagonista del racconto di Gabriele D’Annunzio Mandarina, pubblicato su “Capitan Fracassa” il 22 giugno 1884. La narrazione di questa ardente passione, che D’Annunzio infarcisce di dettagliate descrizioni di atmosfere e ambienti ispirati agli interni de La maison d’un artiste di Edmond De Goncourt, mostra tutta l’incongruenza dell’immedesimazione con lo stile di vita giapponese della nobildonna, i cui eccessi erano così descritti: «Ella aveva questa curiosa affettazione di giapponesismo, nelle vesti, nelle pose, perfino nella voce». 

Non molti anni dopo, alle suggestioni nostalgiche e al sogno di un altrove, filtrato attraverso la mediazione di immagini stereotipate e convenzionali, subentrò l’amaro rimpianto per un mondo ormai perduto: come malinconicamente riscontrato da  Claude Lévi-Strauss, nel suo celebre studio antropologico del 1955, i tropici erano diventati tristi, avendo perduto in maniera irrecuperabile la loro originaria purezza. E la nostalgia si mutava in strazio di fronte alla constatazione che la corruzione di questi ultimi angoli di paradiso si doveva solo alla mano dell’uomo. 

GLI SGUARDI DELLA NOSTALGIA 

La nostalgia spesso compare come struggimento per un tempo irrimediabilmente perduto. Ed è quel senso malinconico e doloroso di perdita che avvertiamo quando affiorano nella nostra mente immagini dell’infanzia o della giovinezza o quando sentiamo un’aria musicale che ci riporta indietro a qualche remoto ricordo. Può essere pure un sentimento riferito a un passato che non si è mai vissuto in prima persona, ma reso quasi concreto e tangibile dall’elaborazione dell’immaginario collettivo. O è semplicemente la nostalgia di qualcosa di inesprimibile.

Come ha scritto Olimpia Affuso: «La nostalgia riguarda dunque un desiderio, ma non esattamente il desiderio che qualcosa ritorni, quanto piuttosto di ritornare a qualcosa, fin dall’inizio, di ri-trovarsi nel punto in cui una certa esperienza stava cominciando. È il desiderio di riavviare il tempo, lo start, le premesse, e le promesse, ma anche le alternative».

Negli sguardi femminili della nostalgia, proposti in questa sezione della mostra, si intrecciano dunque sentimenti di rimpianto per affetti e amori perduti, per epoche della propria vita lontane e inesorabilmente terminate, ma anche sentimenti di un’indefinibile nostalgia per qualcosa di inespresso: quel «desiderio di ciò che è assente» che rimanda al citato termine tedesco Sehnsucht.

NOSTALGIA DELLA FELICITÀ 

Espressione della pena per un sogno non realizzato, per una promessa non mantenuta, per una felicità incompiuta, ma anche per un ricordo felice, la nostalgia riporta a galla brandelli di memoria che proiettano nella nostra mente immagini sfuocate e sgranate di episodi del passato, dei quali sovente non siamo più in grado di ricostruire la cornice e il contesto. 

Spesso la nostalgia di una felicità vissuta o, più semplicemente, di un’aspirazione alla felicità risale ai ricordi dell’infanzia, ma anche a momenti di spensieratezza giovanile – le indistinte e sfuggenti espressioni dei volti dei ragazzi sull’ottovolante raffigurati da Oscar Saccorotti o le nebulose sagome di una coppia di schiena, che si avvia verso le giostre di un luna park parigino, nel dipinto di Giacomo Balla – in cui l’indefinitezza del ricordo rimanda a un tempo del nostro vissuto irripetibile e irrecuperabile, che sembra non appartenerci più.  

E proprio sul dolore per la perdita irreversibile di quanto vissuto durante la giovinezza Immanuel Kant ha scritto: «Gli svizzeri […] sono colti da una grande nostalgia per il loro paese quando sono costretti a vivere in altri; essa è prodotta dal ritorno delle immagini della spensieratezza e delle liete compagnie della giovinezza, che li spingono verso i luoghi in cui godettero le gioie semplici della vita. Se però fanno ritorno in quei luoghi […] tutto è cambiato, ma in realtà è perché non vi ritrovano più la loro giovinezza».

NOSTALGIA DELL’INFINITO

Come liricamente evocato nei versi di Leopardi, l’infanzia rappresenta la stagione in cui si formano pensieri, aspirazioni, desideri, ma anche quelle intuizioni rispetto all’immensità dell’universo, che nostalgicamente si ripresenteranno nell‘età adulta. Ed è proprio durante l’età romantica che la pittura di paesaggio iniziò a confrontarsi con la visione dell’assoluto che 

scaturiva dal confronto con una natura ancora incontaminata. La grandiosità dei paesaggi e il senso di estraneità e di mistero che tali scenari evocavano, nella loro imponente vastità, suscitavano inquietudine, ma anche una nostalgica ammirazione per l’infinito. Tra i paesaggi che maggiormente simboleggiarono la lacerante consapevolezza dell’incommensurabile distanza e limitatezza dell’uomo di fronte al mistero dell’universo, si distinsero quelli raffiguranti l’imponente dimensione fuori scala delle montagne che, oggetto allo stesso tempo di terrore e attrazione, diventarono uno dei soggetti prediletti della pittura europea dei secoli XVIII e XIX. Immancabile tappa naturalistica del Grand Tour, i monumentali scenari di montagna, costituiti dalle voragini e dai precipizi dei canaloni e dei crepacci e dal nitore assoluto dei ghiacciai, richiamavano – nell’attinenza al senso del sublime teorizzato nel 1757 da Edmund Burke nel trattato Philosophical Enquiry into the Originof Our Ideas of the Sublime and Beautiful – la stessa percezione di eternità emanata dai ruderi dei monumenti antichi. 

Questo senso di vertigine dinnanzi all’infinito – maggiormente acuito nel momento in cui alziamo lo sguardo verso la volta celeste, come magicamente raffigurato nel Notturno con effetto di luna di Giuseppe Pietro Bagetti o nel bronzo Le stelle di Arturo Martini – non può che sciogliersi in una sensazione nostalgica, declinabile forse unicamente attraverso le espressioni artistiche, come assertivamente dichiarato da Friedrich Schiller, secondo cui la poesia «essendo superiore a tutto ciò che la realtà può offrirle, ha solo il diritto di rimpiangere l’infinito».

E se la nostalgia moderna coincide con una sensazione di perdita permanente, di incapacità di ritorno a una dimensione mitica e di estraneità dal senso di assoluto dell’universo, generando così la nostra nostalgia dell’infinito, le espressioni artistiche contemporanee, ci permettono nella loro attitudine concettuale – caratterizzata dalla progressiva riduzione dei mezzi espressivi (Yves Klein), dall’incisiva essenzialità del gesto (Lucio Fontana), dall’alchemica trasformazione della materia (Anish Kapoor ) e, più in generale, da una graduale espansione mentale nello spazio – di oltrepassare, attraverso un cambio di prospettiva rispetto alla nostra quotidiana percezione del mondo, i limiti spaziali terrestri. E di dare un senso alla nostra nostalgia.

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