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Disco Club: recensioni, consigli, classifiche e novità. La rubrica di un dischivendolo/13 ottobre 2016

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A CURA DI DIEGO CURCIO

LE RECENSIONI

BEN GLOVER – The Emigrant

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E’ ben noto che i matrimoni misti, ancorché spesso problematici, sono quelli destinati a portare in dote all’umanità un bello sparigliamento di geni. Succede lo stesso anche in musica, e il trionfo, nel secolo scorso, di tutte le musiche afroamericane (dal ragtime al tango passando per il blues, il rock, il bluegrass, il son cubano, il jazz, e il resto si aggiunga a piacere) ha garantito alle musica tutta un bell’apporto di vitalità. Quando gli irlandesi furono costretti, da una sciagurata carestia a metà ‘800, peraltro abilmente e sadicamente sfruttata dai nobili inglesi, a far rotta in massa per l’America, ne è scaturita una serie di musiche di incroci possibili e impossibili che ancora oggi lascia un senso di stupore. E di gioia all’ascolto. Ci han provato i De Dannan e i Chieftains, ad esempio, a ripercorrere le piste, ora aggiungiamo, con medaglia d’onore, il signor Ben Glover. Che ha dalla sua una voce virile e ammaliante, un tocco sulla chitarra preciso, e il miracolo di una scrittura facile per cose difficili, perché le canzoni sono bellissime al primo ascolto. Con un piede nell’Isola di smeraldo, e quindi un mulinare discreto e palpitante di piccole cornamuse ed altri attrezzi della tradizione, ed uno negli States dove sbocciava la gran fioritura della country music. The Emigrant è un disco quasi commovente. Pressoché perfetto. Di una forza tranquilla che, di questi tempi, pochi hanno eguagliato. Guido Festinese

NATHAN BOWLES – Whole & Cloven

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Nathan Bowles è un coraggioso polistrumentista della Virginia (oggi residente in North Carolina), appassionato di percussioni, ma soprattutto virtuoso banjoista ipnotico e sperimentale, tra gli odierni innovatori della profonda tradizione appalachiana (rimandiamo alle sue collaborazioni con Steve Gunn e al suo capolavoro “Nansemond”), letteralmente capace di tradurre in suoni i segni e le suggestioni del paesaggio, quasi restituendolo al suo inconsapevole stato primitivo, svincolato da uno sguardo culturale o dalle trasformazioni dell’agire umano. Un musicista “primitivo”, insomma, sprofondato in un’arcaica e ancestrale old time music intrisa di tutto il suo composito humus di elementi, e al contempo decisamente aperto al rischio e all’innovazione. La tradizione in Bowles non risiede tanto nell’aggiornata formulaicità quanto nella ritualità del gesto, nell’appassionata ricerca sonora, nella rievocazione fantasmatica, nel costante richiamo alla terra custodito nelle corde del suo banjo; per il resto (quando la composizione non prende il sopravvento) spazio a improvvisazioni, a ricorsive digressioni sonore, ossessive iterazioni variate, sospesi mantra acustici, esoterici passaggi minimali (e qui, in questo senso, il capolavoro è rappresentato dai quasi undici minuti di “I Miss My Dog”). La stilizzata copertina di “Whole & Cloven” sa tanto di richiamo esplicito a questa radicalità atavica (quasi sciamanica) proiettata nella contemplazione dell’infinito: in primo piano un dipinto di John Henry Tooney, artista afroamericano originario dell’Alabama, che rimanda a preistoriche pitture rupestri come rielaborate (però) dai tratti semplici e consapevolmente retrospettivi di certa avanguardia novecentesca. “Whole & Cloven”, terzo disco solista di Bowles, è come di consueto un album prevalentemente strumentale, con la sola eccezione di “Moonshine Is The Sunshine”, cover di un misconosciuto brano di Jeffrey Cain del 1972. Sette episodi che (lo abbiamo detto) mettono in stretta correlazione il profondo substrato rurale della cosiddetta tradizione appalachiana, l’old time folk americano, la mountain music più inquieta e misteriosa, con soluzioni strumentali decisamente moderne e avanguardistiche. Diversamente da quel che accade in “Nansemond”, qui Bowles sembra parlare più di sé che descrivere e raccontare l’ambiente circostante. Le sue questa volta sembrano meditazioni personali sui temi dell’assenza e dell’abbandono. D’altronde Bowles ha dichiarato di essersi sentito più sciolto e pronto alla confidenza nella realizzazione di questo lavoro, tanto da essere addirittura riuscito (in alcuni momenti) a separarsi dal rassicurante alter ego banjo, magari per usare un pianoforte (nella singolare e inattesa “Chiaroscuro”) e denunciare così il suo debito anche nei confronti della musica classica. L’opera di Bowles (lui che potrebbe passare da un successo bluegrass all’altro) appare come un sincero invito alla meditazione, alla ricerca interiore, prim’ancora che musicale. Un esempio di coerenza e serietà (non per questo poco spassoso), nel quale le ragioni della tecnica sono in perfetta sintonia ed equilibrio con quelle dell’espressività. Marco Maiocco


RICHARD SHINDELL – Careless

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A volte i dischi sarebbe bene farli partire esattamente dalla fine, a rovescio. E poi proseguire random, lasciando che sia il lettore a decidere. Almeno si eviterebbero pesanti luoghi comuni dettati dal un primo frettoloso ascolto. Ad esempio se uno si mette ad ascoltare il nuovo disco di Richard Shindell, rocker del New Jersey misteriosamente approdato in Argentina , rischia di abbandonarlo poco dopo, se non è profondamente interessato al country rock e all’Americana in genere, e parte dall’inizio: Stray Cow Blues è esattamente quanto promette il titolo. Un blues pesantemente cadenzato e con l’andamento sornione del country rock. Sarebbe un peccato, però, perché è ben vero che Shindell appartiene a pieno titolo ai generi prima indicati, mettendo in conto anche un po’ di maturo alt countrry, ma dissemina nei suoi ultimi lavori tasselli tanto sorprendenti quanto pregiati. The Dome, che chiude il disco, sono cinque minuti di cosmic american music pura, con lunghe scie psichedeliche, e introdotto da un altro brano ben curioso, Satellites. E The Deer On The Parkway frammenta e fa incespicare il classico andamento country rock con mille idee ritmiche e metamorfosi del profilo melodico. Nel brano che intitola, Careless (che sembra un bell’outtake dei Rem più in forma, merito anche della voce simil Michael Stipe) entra anche una tromba davisiana a rifinire le frasi, e ci sta benissimo, in mezzo al mulinare di corde. Insomma, mettiamoli da parte, i luoghi comuni. Guido Festinese

A.S.E./ALFATEC – Split

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A pochi mesi dal loro esordio con l’ep “MMXVI” tornano nuovamente a farsi sentire gli Anno Senza Estate (A.S.E.) di Alessandra. E lo fanno ancora una volta con un 45 giri molto spartano e diretto, anche se, a questo giro, si tratta di uno split. Ad accompagnare il supergruppo piemontese ci sono infatti gli Alfatec di Firenze, che, detto tra noi, non avevo mai sentito nominare. Al di là delle credenziali e degli ospiti presenti su questo pezzetto di vinile senza copertina come usava ai vecchi tempi dell’hc italiano – al fianco degli A.S.E. ci sono ospiti illustri come Gippy dei Leisfa, Alberto dei Peggio Punx e Ciaccio dei Semprefreski, mentre il missaggio del disco è curato ancora una volta dal mitico Jack Endino – bisogna ammettere che il garage core della band piemontese non ha perso lo smalto dell’esordio. Anzi, a mio modestissimo parere, i quattro pezzi del loro lato (tutti rigorosamente sotto i due minuti di durata) sono ancora più a fuoco rispetto al passato. I brani suonano granitici e compatti e, come avevo già rilevato l’altra volta, hanno un non so che di rock italiano Anni Novanta. Più grezza e sporca, invece, la facciata degli Alfatec; tre pezzi suonati a mille all’ora, in cui noise e hardcore (cantato in inglese) si mescolano alla perfezione, come un buon cocktail a base di cianuro e gazzosa. Canzoni brutali e senza un attimo di sosta, insomma, per uno split senza tante musse, come dicono dalla mie parti, e parecchia sostanza. Diego Curcio

IL DIARIO

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Diario del 11 ottobre 2015
Riapre la casa di salute mentale Disco Club.
Tra un schizzo del Batterista di James Brown (di ritorno dopo la tournée estiva con James nel Basso Piemonte) e uno di Ivano (“la mamma ha rotto di nuovo, le ho detto ‘E’ inutile che parli di Italia, Francia, Germania, io voglio MANGIARE”), entra un signore di mezza età, distinto e con lo sguardo un po’ perso; mi si rivolge gentilmente, “Scusi vorrei farle due domande, una informazione e una richiesta. La prima: i Beatles erano quattro?”, (mi prende in giro?) “Sì”, “A parte quelli famosi ce n’era uno sconosciuto, come si chiamava?), (sì, mi prende in giro!) “Lennon, McCartney sono quelli ‘famosi’, poi Ringo e George Harrison”, una parvenza di vivacità nei suoi occhi, “Ecco Harrison è quello che ha fatto anche….”. Non saprò mai quello che ha fatto lo sconosciuto dei Beatles, perché lui passa alla seconda domanda, la richiesta: “Scusi lei ha qualcosa di De Andrè” e lo dice come se mi chiedesse il disco di uno sconosciuto. Lo guardo bene e mi richiedo “Mi prende in giro?”; no, non mi prende in giro, dopo una decina di minuti compra Tutti morimmo a stento (a proposito, il primo pezzo è Cantico dei drogati).
Per fortuna subito dopo due giovani, sicuramente più brillanti e con la mente fresca. Già da fuori sento che dicono “Qui ce l’hanno sicuramente”, entrano e quello che ha parlato chiede, “Avete musicassette?”, “No”, “Ah, e musicassette di Phil Collins?”. La mente non era poi tanto fresca.
Quella du Megu è più che fresca, è di un bambinone. Oggi vuole raccontarci a tutti i costi una barzelletta; “Lascia perdere” gli dico, ma non c’è niente da fare, parte: “Lo sai che Khomeyni aveva fatto mettere dentro anche il vento?”, io non reagisco, ma lui continua, “Sai perché?”, io sempre muto, lui “Sbatteva le persiane!” e lo dice soddisfatto con la pancia che gli ballonzola per le risate.
Per oggi la Casa di Salute chiude.

LE PROSSIME USCITE

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Domani
SAXON – LET ME FEEL YOUR POWER
BLACKBERRY SMOKE – LIKE AN ARROW
PAOLO CONTE – AMAZING GAME
STEVE FORBERT – FLYING AT NIGHT
BETH HART – FIRE ON THE FLOOR
KINGS OF LEON – WALLS
KATIE MELUA – IN WINTER
MOBY – THESE SYSTEMS ARE FAILING
TYKETTO – REACH
SUZANNE VEGA – LOVER, BELOVED: CARSON MCCULLER
11 NOVEMBRE
PINK FLOYD – The Early Years 1965-1972

LA CLASSIFICA DELLA SETTIMANA

1 GREEN DAY – REVOLUTION RADIO
2 OKKERVIL RIVER – AWAY
3 MESHUGGAH – THE VIOLENT SLEEP OF REASON
4 VAN DER GRAAF GENERATOR – DO NOT DISTURB
5 OPETH – SORCERESS
6 VAN MORRISON – KEEP ME SINGING
7 DENTE – CANZONI PER META’
8 ALTER BRIDGE – THE LAST HERO
9 NORAH JONES – DAY BREAKS
10 NICK CAVE & THE BAD SEEDS – SKELETON TREE

 

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