Il VIDEO dell’operazione “Domino” e il caso Hannoun: quando la solidarietà finisce dentro un’inchiesta

Nel filmato diffuso dagli investigatori, l’indagine che ha portato agli arresti ruota attorno a Mohammad Hannoun e a una rete di raccolta fondi descritta come ramificata in più città. Tra mappe, numeri di intercettazioni, immagini di sorveglianza e fotografie, il video prova a trasformare un fascicolo complesso in un racconto lineare. Sullo sfondo resta la frase dei magistrati: i crimini di guerra e il terrorismo sono due piani diversi, e nessuno può diventare l’alibi dell’altro

Il filmato sull’operazione chiamata “Domino” è una narrazione visuale, quasi didattica, che prova a far vedere come, secondo gli investigatori, si sia costruito nel tempo un sistema di relazioni e trasferimenti di denaro.

Il punto di partenza, nel video, viene fissato all’inizio di ottobre 2023, prima degli eventi che hanno cambiato in modo drastico il conflitto in Medio Oriente. Viene richiamata una “segnalazione di operazioni sospette” e, da lì, si entra nella parte più “tecnica” dell’indagine: un conteggio impressionante di attività investigative, con un dato che colpisce più di altri, quello degli oltre 4,1 milioni di “progressivi” di intercettazione indicati nella grafica. È il classico numero che, messo su schermo, funziona da messaggio immediato: non un episodio isolato, ma un lavoro lungo, stratificato, costruito su molti riscontri.
Poi il video cambia registro e diventa mappa. L’Italia compare come una costellazione di punti: Genova, Milano e altre città vengono richiamate come snodi di un’organizzazione descritta come nazionale. In una slide si vede una legenda che associa a Genova un ruolo centrale e a Milano un ruolo operativo; in un’altra parte, dedicata alle perquisizioni, Milano viene indicata come sede principale della raccolta fondi con un raggio sul Nord-Ovest e Roma come riferimento per il Centro Italia. Al di là delle etichette, il senso del racconto è chiaro: l’inchiesta non viene presentata come “locale”, ma come rete.
Dentro questo impianto, la figura più citata resta Mohammad Hannoun, che il video e i materiali dell’indagine collocano al centro di rapporti e decisioni. A un certo punto scorrono schermate che elencano alcuni nomi già emersi nelle ricostruzioni dei giorni scorsi e che vengono associati a ruoli organizzativi e territoriali. È una scelta comunicativa forte: non si resta sull’astratto, si scende sul personale. In questo modo il video trasmette l’idea di una struttura con compiti ripartiti: chi raccoglie, chi gestisce le sedi, chi si occupa dei passaggi, chi mantiene i contatti.
Le immagini, però, sono la parte più delicata. Il filmato alterna grafici a fotografie e a riprese di sorveglianza. Si vede, ad esempio, una scena dall’alto dentro un’auto, con mani che contano denaro: un frammento che, da solo, basta a suggerire il tema “contante” e a far capire quale tipo di passaggio gli investigatori intendano documentare. In un’altra sequenza compare una fotografia presentata come elemento di contesto, con Mohammad Hannoun accostato a un esponente indicato nel video come Ali Baraka. Anche qui non c’è bisogno di grandi spiegazioni: l’immagine viene usata per rafforzare l’idea di contiguità e di contatto, cioè uno dei pilastri narrativi dell’operazione.
Il punto, per chi guarda, è che un video del genere non è un processo e non è una sentenza. È un racconto “da indagine”, costruito per spiegare perché si è arrivati a misure cautelari, quali elementi vengono ritenuti significativi e come sarebbero stati ricostruiti i flussi di denaro. Per questo, mentre colpisce la concretezza del montaggio – mappe, cifre, luoghi, materiali – resta indispensabile la cautela sul piano delle responsabilità individuali: l’accertamento definitivo, come sempre, passa dal giudizio e dal contraddittorio.
Ed è qui che torna utile, come cornice, quel passaggio netto contenuto nella nota dei magistrati: la sofferenza della popolazione palestinese e i crimini commessi nelle operazioni militari dopo il 7 ottobre 2023 restano un tema che attende giudizi internazionali, ma non possono diventare una giustificazione per gli atti di terrorismo; allo stesso modo, gli atti di terrorismo non possono diventare una scorciatoia per sminuire o mettere tra parentesi i crimini contro i civili. È una frase che pesa perché prova a separare i piani, a togliere ossigeno alla lettura “a tifoserie”, e a dire che due orrori non si cancellano a vicenda.
A Genova, dove Mohammad Hannoun è figura conosciuta anche per la presenza alle manifestazioni a sostegno della popolazione di Gaza, l’effetto di questo video rischia di essere doppio: da una parte, irrigidire lo scontro pubblico e alimentare semplificazioni; dall’altra, spingere la città a interrogarsi su un confine che in tempi di guerra diventa più difficile da vedere e più facile da strumentalizzare. Perché la solidarietà, quella vera, vive di trasparenza: se un’inchiesta sostiene che dietro la raccolta fondi “umanitaria” si nasconda altro, la risposta non può essere né il sospetto generalizzato verso chi manifesta, né l’assoluzione preventiva di chi è indagato. Serve una sola cosa: chiarezza, e il tempo – spesso lungo – della giustizia.
Il titolo scelto per l’operazione, “Domino”, è forse la sintesi migliore dell’intenzione comunicativa: far capire che, per gli investigatori, non si tratterebbe di episodi slegati ma di tessere che cadono una dopo l’altra, rivelando una figura complessiva. Il video prova a mostrarla. Il tribunale dovrà stabilire se quella figura regge davvero. Resta, intanto, il dovere di raccontare senza confondere: distinguere i fatti dalle ipotesi, le accuse dalle prove, e la cronaca dal verdetto.
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