Cinema 

Quello che le operaie si dicono (“Sette minuti”, l’ultimo film di Michele Placido)

di Mauro Traverso*

Dentro la storia del cinema italiano, piccola o grande che la si voglia considerare, la politica ha avuto un peso specifico più alto che in altre cinematografie, soprattutto dal dopoguerra fin qui. I motivi al completo sono troppo grandi e troppo lunghi da spiegare per questa rubrica ma, tanto per sintetizzarla molto (troppo) diciamo che ci sono stati anni, i sessanta e i settanta soprattutto, in cui il cinema che parlava di politica, di società, di diritti o di lavoro era diventato, di fatto, un genere. Si chiamava “cinema impegnato” e aveva preso troppo sul serio un’indicazione sbagliata, o per meglio dire involontaria, del neo-realismo, alla cui ombra è rimasto quasi tutto il nostro cinema drammatico tout court, con l’ovvia eccezione di alcuni grandi autori. L’indicazione involontaria era quella che diceva che, per girare buoni film in Italia, bisognasse fare, sostanzialmente, della Storia Contemporanea con uso di personaggi (o della Cronaca, della Saggistica, del Giornalismo, scegliete voi la parola che preferite purché evitiate con cura altre parole come Spettacolo e Narrativa). Questo approccio ci ha regalato alcuni capolavori e molta fuffa: senza stare qui a far liste di premio e punizione, quel che successe è che il “cinema impegnato” divenne (anche) moda, vento che tira, pensiero dominante, ufficio di collocamento, dispensatore di patenti più o meno utili alle carriere di registi, attori e sceneggiatori e perfino alla coscienza politica degli spettatori, costretti ad “impegnarsi” pur di non essere considerati consumisti e basta. Quelli erano i tempi e se uno li ha vissuti, in diretta anagrafica o in retrospettiva cinefila poco importa, oggi, quando sente, anche da lontano, odore di “cinema impegnato” gli viene, eastwoodianamente, da metter mano alla fondina. Ragione per cui, prima di andare a vedere Sette minuti, l’ultimo film di Michele Placido, ho portato un po’ di sana prevenzione con me in sala. Intendiamoci: Michele Placido sa girare. Non che sia “uno sguardo d’autore dei nostri giorni” o un genio della macchina da presa, ma possiede solidità del mestiere e senso della misura: gira mostrando i fatti espressi dalla sceneggiatura e non cerca di moralizzare nessuno. A parte Romanzo criminale, ( posso dirlo? Bello ma sopravvalutato ) mi pare gli si debba tutti almeno un altro degno titolo, Un eroe borghese, tratto dall’omonimo romanzo di Corrado Stajano, sugli anni dedicati da Corrado Ambrosoli, un bravo Fabrizio Bentivoglio, a cercare di ricostruire le intricate vicende finanziarie di Michele Sindona, finendone ammazzato sotto casa. Solo che, in questo caso, mi pare che il pur bravo Placido se le andasse a cercare, come si dice, con il lanternino. Sette minuti racconta la vicende di un consiglio di fabbrica nel quale le operaie delegate devono decidere se avvallare o meno un accordo industriale raggiunto dai proprietari: hanno ceduto la maggioranza della fabbrica a una multinazionale francese che offre di mantenere tutti i posti di lavoro così come sono in cambio di sette minuti di pausa pranzo in meno. Le operaie sono interpretate da Ottavia Piccolo, Ambra Angiolini, Cristiana Capotondi, Violante Placido, Maria Nazionale, Fiorella Mannoia, Clemence Poésy, Sabine Timoteo, Anne Consigny. ( È questo il momento in cui si cerca la fondina, isn’t it? ) Fedele alla sua origine teatrale (Sette minuti è il titolo di un testo scritto da Stefano Massini e diretto per il palco da Alessandro Gassman, in cui ha recitato la stessa Ottavia Piccolo) è dunque, quasi per intero, un esempio di film ‘”in camera chiusa”: Placido ha detto che si è riguardato più e più volte La parola ai giurati, capolavoro d’esordio di Sidney Lumet, con Henry Fonda tra gli altri, per trarne ispirazione e, porca miseria, ha fatto bene. Quello resta un esempio troppo alto, forse, per poterlo seguire fino in fondo, ma era il modo giusto per girare questa storia. È stato il modo giusto per scrollarle di dosso tutto il potenziale ‘impegnativo’ e portarla al livello di narrazione migliore: ci si guarda negli occhi, nel film, si discute con quelli. e si discute proprio di lavoro, di fabbrica, di stipendio. Non mancano i momenti retorici ( le inevitabili liti da gineceo, la rappresentante dei nuovi “padroni” veramente troppo superficiale e borghese, troppe battute per sottolineare “l’orgoglio popolare” delle operaie ), ma non ci si annoia nemmeno un attimo. Si sta lì dentro, sul pezzo, a domandarsi di chi sono quei sette minuti. Già, proprio quello: la domanda eterna che ritorna: di chi è il tempo speso i fabbrica? Delle operaie o di un qualsiasi, invisibile e inafferrabile nuovo proprietario? Per ovvie ragioni non do qui la risposta che si danno le operaie del film: qui posso scrivere che sembra un thriller, a momenti. E che tutto il cast, con mia felice sorpresa, si rivela all’altezza. Sulla signora Piccolo non c’erano dubbi, sulle altre sì, mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa. Menzione d’onore per Ambra Angiolini, che rende credibile la coatta del gruppo, portando con il giusto orgoglio la scritta Amen tatuata sul collo, e per la non-attrice Fiorella Mannoia, madre apprensiva e operaia felicemente realista, come ne avete incontrate mille nella vita. Complimenti a tutte, comunque. Consigliatissimo alle donne, ancora di più alle figlie o comunque alle ragazze. Non tanto per far loro prediche su futuro, lavoro o società, quanto per mostrare loro l’etica possibile del confronto e la possibilità di avere un’etica (femminile) dovunque.

 

*Critico cinematografico

Mauro traverso cinema definitivo

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