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Regazzoni e Borzani duellanti sull’islam

Fino a qualche settimana fa il Pd, dibatteva soprattutto e principalmente sugli sbarchi, sui centri di accoglienza, sulle ripetute tragedie al largo delle nostre coste con cadaveri ripescati di uomini, donne e bambini, sui muri delle nazioni confinanti e sui ponti immaginari che Papa Francesco spingeva a costruire, sui profughi di Ventimiglia e sul sindaco del Pd Enrico Ioculano. Meno, molto meno, del pericolo di attentati jihadisti. Tranne poi ritrovarsi, ogni volta, come tutti noi, sgomenti e un po’ presi alla sprovvista, di fronte alla retorica aggressiva della Lega Nord e della destra, coalizzate, di volta in volta, sull’argomento della chiusura delle frontiere ai profughi, veri e presunti. Rifiutando, comunque, ostentatamente, nello spazio temporale fra un attentato terroristico e l’altro, di prendere in esame la pericolosità di ospitare, in nome della fratellanza fra i popoli, clandestini di cui non si conosceva e non si conosce se non almeno il punto di imbarco quello più illuminante di esatta provenienza.
Il merito di aver costretto parte del Pd, per la verità molto esigua fino ad oggi, a riportare d’attualita’ il dibattito sulla pericolosità della immigrazione spetta all’auto-candidato sindaco Simone Regazzoni, che l’ha appositamente inserito al centro del suo programma, incardinato su un ritorno alla difesa militante, e non solo, dei cittadini attraverso il ripristino della legalità’ nel centro storico e nelle periferie. Siti di residenza di gran parte degli islamici. Il politico-filosofo Regazzoni, stufo di parole di circostanza che non affrontavano a fondo il problema, ha indirizzato una lettera al Pd nell’intento di aprire un dibattito in seno al partito. Confronto che esulasse dalla retorica buonista che individua la matrice degli attentati facendolo risalire, in maniera parzialmente più rassicurante, a lupi solitari o a cellule dormienti. Con terroristi appartenenti a seconde e terze generazioni, ormai inserite, con nazionalità e passaporto,
provenienti dai ghetti dell’inferno delle periferie. Arrivando di fatto a scagionare e tutelare i profughi e immigrati appena sbarcati. E stabilendo un rigida linea di confine con il risultato di diversificare il fuorore della destra xenofoba dalla retorica dell’inclusione della sinistra. Regazzoni, nella sua lettera al Pd, militanti e gruppo dirigente, ha ribaltato le teorie sostenute dalla maggioranza degli esponenti del suo partito “L’errore peggiore che i governi possano compiere durante le crisi è liquidare l’ansia diffusa rispetto all’immigrazione, come illegittima o come segno di intolleranza, xenofobia, razzismo. Comportarsi così alimenta solo l’ansia e l’estremismo. Noi non ci facciamo più carico delle ansie e delle paure della popolazione in un difficile contesto di crisi e insicurezza globale. E più precisamente: noi non ci facciamo più carico di quelle ansie e di quelle paure presenti tra i ceti popolari, presenti anche tra i nostri stessi elettori. Non basta dire “torniamo nelle periferie”, “torniamo a parlare con i ceti popolari”, se poi su questi temi difficili, invece di ascoltare le paure e misurarci con esse, siamo solo in grado di dare piccole lezioni di moralità, magari chiamando in causa il Papa come ha fatto recentemente il sindaco Doria. Compito del Pd è dare risposte politiche: non dispensare lezioni etiche. Critichiamo qualsiasi paura, quando va bene, come fantasia infondata come forma di incomprensione cui contrapponiamo meri dati numerici. Più frequentemente liquidiamo ansie e paure come forma di razzismo e xenofobia da esorcizzare in nome della solidarietà, agitata come vessillo etico in un contesto in cui il controllo dei flussi e la collocazione dei migranti in strutture adeguate pone, innegabilmente, alcuni problemi. Con questa strategia otteniamo un solo, pericoloso risultato politico: le paure non ascoltate e contenute, vengono cavalcate dalla destra, che le incornicia in un discorso xenofobo. Credo che questo sia uno dei temi su cui cominciare a discutere seriamente, fuori da vecchi schemi ideologici. Siamo pronti a farlo? Ma non il solito, vecchio dibattito in cui raccontiamo che il problema non esiste, che occorre stare tranquilli, che le ansie sono infondate. Ma una discussione franca, seria, responsabile, in cui ammettiamo che un problema c’è e che le ansie della popolazione meritano ascolto e risposte concrete, non lezioni». E per dar maggior nerbo alle sue considerazioni, che includevano anche il pericolo dei migranti come mezzo per infiltrare nel nostro paese terroristi pronti ad immolarmi e ad uccidere per la loro causa religiosa ha citato lo studio “Understanding and Addressing Public Anxiety About Immigration” del “Migration Policy Institute”, spingendo Luca Borzani, esponente della sinistra genovese e presidente della Fondazione di palazzo Ducale a un intervento comparso due giorni fa su “La Repubblica”. Il 15 luglio, all’indomani della strage di Nizza, lo stesso Borzani, in preda all’emozione per l’attentato annotava sulla sua pagina facebook “Senza parole, se non la necessità di essere consapevoli che ciò che abbiamo chiamato normalità non esiste più”. A meno di due settimana di distanza, a freddo, aggiustava il tiro, rifacendosi a una dichiarazione dello scrittore franco-marocchino Tahar Ben Jelloun. “Ben Jelloun scrive con grande nettezza: “non basta insorgere verbalmente, indignarsi ancora una volta e ripetere “questo non è l’Islam”. Non è più sufficiente” . E ancora: “dobbiamo scendere in massa nelle piazze e unirci attorno a uno stesso messaggio: liberiamo l’Islam dalle grinfie dell’Isis”. Di fatto Ben Jelloun invita a una mobilitazione civile dentro i centri di preghiera e le moschee e a una nuova visibilità pubblica degli islamici europei. Con tutta la differenza che corre tra “prendere le distanze” e “scendere in piazza”. È un appello che, per chi lo ricorda, ha molte analogie con la scelta della sinistra e dei sindacati di manifestare contro il terrorismo negli anni di piombo italiani. Una scelta che contribuì in modo decisivo ad allontanare ogni sospetto di collusione e a spazzar via ogni ambiguità. In qualche modo si chiede all’Islam europeo di perseguire la stessa strada, di essere parte attiva di una politica di prevenzione e di sicurezza, di produrre al proprio interno una cultura che faccia argine alla violenza. È più che probabile che neanche questo passo porterebbe ad un’effettiva salvezza dallo stragismo. Troppe sono le contraddizioni sociali e culturali che lo alimentano. E le comunità islamiche sono già largamente, soprattutto in Italia, lontane da ogni forma di contaminazione con la jihad. Ma forte sarebbe l’impatto civile. Soprattutto si toglierebbe spazio a chi usa la paura come arma della politica. A chi in nome della guerra tra le civiltà predica odio e amplifica l’insicurezza. La dimostrazione di un comune sentire di cittadinanza, di sentimenti condivisi nei confronti della violenza indiscriminata, contribuirebbe a ridurre la produzione di stereotipi razzisti, a evitare quelle separatezze grigie proprie di un multiculturalismo che segna ormai il passo davanti ai processi di mutamento sociale e della globalizzazione. All’appello di Ben Jelloun manca però, almeno per quanto riguarda l’Italia, un corollario e cioè l’applicazione dei pieni diritti di cittadinanza per chi esercita la religione islamica. Siamo un paese dove costruire una moschea è sostanzialmente impossibile : le vicende genovesi sono troppo note e recenti per tornarci sopra. Un paese dove esiste, senza ragione, una diffusa islamofobia che si coniuga con un’insofferenza sempre più alta verso gli immigrati e con la sovrapposizione tra immigrazione presente da decenni e i rifugiati. Il terrorismo jihadista e lo stato d’animo di insicurezza diffusa che ormai attraversa la vita quotidiana costringono a fare i conti con la superficialità avuta nei decenni (centro destra e centro sinistra) verso le migrazioni, l’assenza di strategie nazionali capaci di produrre integrazione e inclusione. È stato lasciato tutto alle comunità locali e quando, come nel caso dell’accoglienza dei profughi, interviene direttamente lo stato prevale un atteggiamento burocratico poco interessato poi all’effettivo risultato”. Stimolando, insomma, da parte di Borzani, l’effetto complesso di colpa per non aver praticamente offerto contropartite che consentissero ai rappresentanti dell’Islam di integrarsi nella società occidentale continuando a professare liberamente la propria fede religiosa, fino a prospettare per la nostra città il ruolo di luogo ove cercare di sperimentare la perfetta integrazione “Ma per tornare all’appello di Ben Jelloun: Genova potrebbe bene rappresentare un laboratorio di pratiche positive. La comunità islamica genovese, composta per altro da un numero consistente di cittadini italiani, ha firmato, forse prima in Italia, una convenzione di diritti e doveri con l’amministrazione comunale, ha aperto i luoghi di culto alla città, ha manifestato in piazza De Ferrari dopo gli attentati di Parigi. Purtroppo in quell’occasione i non islamici si contavano sulle dita della mano. A evidenziare lo scarto tra tante declamazioni antislamiche o i tanti inviti formali al dialogo e i processi reali. Che sono invece quelli da perseguire. Senza retoriche”.
E a questo punto i ragionamenti dei due rappresentanti della sinistra genovese, che pure in passato hanno dimostrato reciproca simpatia e stima, iniziano a divergere tanto che Regazzoni e Borzani, iniziano ad incrociare le armi dialettiche in punta di fioretto e con qualche inevitabile stoccata.
Regazzoni ha commentato l’intervento del presidente della fondazione palazzo Ducale prendendo le distanze sulla sua pagina fb. “Caro Luca sollevi una questione importante. Mi pare manchi pero’ un nodo centrale”. Come dire, “Bene perché inizi a parlarne, ma la tua analisi e’ difettosa”. Poi, poche ore dopo, con argomentazioni pubblicate da Genova Business journal, prende definitivamente le distanze da quel ragionamento, incalzando, pur senza farne il nome Borzani che, nel suo ragionamento rappresenta, per dirla tutta, le contraddizioni della sinistra sulla questione dei migranti. Sinistra che, nella maggior parte, vive la questione della mancata inclusione come un proprio fallimento, fino a farne quasi una concausa della svolta stragista.
“Credo che, nella situazione di guerra in cui ci troviamo, occorra portare l’analisi della questione fino in fondo. Senza alibi. Sono favorevole a qualsiasi appello al dialogo; e sottoscrivo la bontà degli inviti fatti all’Islam europeo a scendere in piazza contro il terrorismo. C’è un nodo reale, però, che questi condivisibili discorsi eludono. O, peggio, rimuovono. Se non lo affrontiamo con responsabilità e rigore, rischiamo solo di fare salotto in un terreno di guerra: perché questo oggi è l’Europa. Genova e la Liguria non sono certo fuori da questo terreno, come dimostrano diversi episodi che hanno interessato il nostro territorio. Ma più in generale, Genova e la Liguria si ritrovano al centro di due virtuali direttrici strategiche. Come è stato scritto: “ La Liguria si colloca al centro di due virtuali direttrici strategiche. Una verticale, che connette il Maghreb all’Europa attraverso il Mediterraneo e il porto di Genova, verso nord. Una direttrice orizzontale, che si snoda per l’Anatolia, i Balcani, talvolta risale la Penisola da Bari o Ancona, e prosegue verso il sud della Francia attraverso la Liguria ” (M. Pugliese, L’antiterrorismo in Italia: attività giudiziaria e d’intelligence Un caso di studio: la Liguria come crocevia).
Con questa consapevolezza, se vogliamo proporre Genova come laboratorio di dialogo dobbiamo prima affrontare il nodo della questione. E il nodo è questo. A Genova come in Europa, nonostante gli eccidi del terrorismo islamista, non c’è stata nessuna sollevazione dell’Islam europeo. Abbiamo visto in piazza minoranze coraggiose e illuminate: ma pur sempre minoranze. A Genova ci sono circa 12mila musulmani: a manifestare in piazza De Ferrari dopo gli attentati di Parigi erano circa un centinaio. Pochi, troppo pochi. Bisogna prenderne atto, ed evitare di raccontarsi favole rassicuranti. Ma questo non è un caso. E la questione non si risolve con gli appelli degli intellettuali. Il punto è che anche intellettuali che fanno appelli contro il terrorismo islamico negano il nodo reale-traumatico del conflitto in corso: negano che si tratti di un conflitto che coinvolge l’Islam. La guerra asimmetrica in corso non usa la religione islamica come semplice pretesto: è piuttosto un conflitto al cuore dell’Islam (contro sciiti e sunniti) e contro l’Occidente democratico. Una certa sottovalutazione, nella cultura di sinistra, della portata religiosa di questo conflitto dipende da un vecchio retaggio culturale: si legge il fenomeno religioso come pura ideologia che nasconde altre ragioni di tipo socio-economico. Da qui tutta una serie di letture, assolutamente riduttive e spesso banali, del terrorismo in chiave di emarginazione sociale. La realtà è un’altra. Questa guerra non solo ha a che fare con la religione: ma con quella delle tre religioni del Libro, l’Islam, che non ha affrontato il nodo della secolarizzazione. E che dunque ha resistito al processo di democratizzazione. Per una serie di ragioni che si possono far risalire alla “Politica” di Aristotele assente nella mediazione islamica della filosofia greca. Ora se l’Islam tutto non riconosce – ed è un passaggio traumatico – che ha un problema al proprio interno, che Isis (come già Al-Qaeda) non è un Altro che nulla ha a che fare con l’Islam, un altro che lo minaccia dall’esterno in modo strumentale, ma un Altro inscritto al cuore dell’Islam e che, a partire da qui, ha scatenato una guerra per l’egemonia di matrice wahhabita-salafita (ma un wahhabismo riveduto e corretto), ebbene non accadrà nulla. Possiamo moltiplicare gli appelli, fare i nostri compitini da buoni e rispettabili intellettuali che invitano al dialogo, ma non accadrà nulla. Una risposta efficace all’Isis (oltre naturalmente a quella militare) passa per la presa di coscienza, da parte dell’Islam moderato, che deve confrontarsi con un processo di secolarizzazione e accettare fino in fondo lo spazio secolarizzato della democrazia liberale in cui il teologico e il politico sono separati. Ora, che l’Islam abbia un problema con la democrazia è qualcosa che ricordava anche un filosofo di sinistra come Derrida che scriveva “oggi al di fuori dell’eccezione araba e islamica c’è sempre meno gente al mondo che osa parlare contro la democrazia”. Se vogliamo dialogare davvero dobbiamo partire da qui. In questo senso l’ultima cosa che un serio intellettuale dovrebbe fare è coltivare l’illusione rassicurante dell’Islam moderato secondo cui Isis non avrebbe nulla a che fare con l’Islam e dovremmo manifestare tutti insieme contro una barbarie esterna. Non è così. Noi dobbiamo dare il massimo supporto a chi nell’Islam lavora per una sua riforma interna, per la sua secolarizzazione. Tenendo ben presente che uno dei fattori cruciali, in tutto ciò, è l’emancipazione femminile. Ma non dobbiamo alimentare alibi. Non possiamo più limitarci agli appelli al dialogo. Di fronte alle carneficine non ci devono essere più alibi intellettuali per nessuno. Questo rischia di regalare i moderati all’Isis? Non credo, ma in ogni caso la questione così è mal posta. E va ribaltata. Dal paradigma paternalistico in cui la democrazia deve preoccuparsi di non far diventare l’altro, che potrebbe radicalizzarsi, un proprio nemico dobbiamo passare al paradigma della responsabilità per cui se l’altro si radicalizza, e vuole fare guerra alla democrazia, ha rotto il patto sociale e viene immediatamente espulso.” In parole povere Regazzoni ricorda a Borzani che sinché gli islamici non siano disponibili a una revisione storica e a una modernizzazione della propria dottrina, che anche nelle visioni più vicine all’occidente prevede un ruolo di perenne sudditanza delle donne e continua a vedere come infedeli i rappresentanti di altre fedi, le manifestazioni contro gli attentati finiscono per risultare riti anacronistici per lavarsi la coscienza che si susseguono, attentato dopo attentato, celebrazioni che finiscono per non avere un effettivo significato. Stupisce infine che di fronte a due esponenti di spicco che, va dato loro atto, con il dialogo cercano di trovare una strategia risolutiva, almeno per quanto riguarda la questione a livello locale, permanga il silenzio, permettetemelo assordante, della maggior parte della classe dirigente del Pd. A riprova di quel l’atteggiamento stigmatizzato da Regazzoni : “Compito del Pd è dare risposte politiche: non dispensare lezioni etiche. Più frequentemente liquidiamo ansie e paure come forma di razzismo e xenofobia da esorcizzare in nome della solidarietà, agitata come vessillo etico in un contesto in cui il controllo dei flussi e la collocazione dei migranti in strutture adeguate pone, innegabilmente, alcuni problemi. Con questa strategia otteniamo un solo, pericoloso risultato politico: le paure non ascoltate e contenute, vengono cavalcate dalla destra, che le incornicia in un discorso xenofobo”. Con il risultato preoccupante e pericoloso di fare salotto in un terreno di guerra.

Il Max Turbatore

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