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Delitti irrisolti: l’omicidio del trapano

È la mattina del 6 settembre 1995. Genova si sveglia sotto una spessa coltre di nubi grigie, cade quella pioggerellina fastidiosa che fa scivolare le segretarie con i tacchi che si affrettano verso l’ufficio e gli studenti universitari che si avviano verso Balbi con le classiche Clark. Nelle redazioni i colleghi più mattinieri sbrigano il primo giro di cronaca, sono le 8.30 o giù di lì. Liguria Emergenza (allora si chiamava così il 118) e i carabinieri in poche parole informano che qualcosa è successo in vico Indoratori, nel centro storico genovese a due passi da Campetto e S. Lorenzo. I primi giornalisti di nera, delle radio e delle tv private arrivano e trovano un’auto dei carabinieri e due agenti dell’arma a presidiare il vicolo, per chi è un po’ avvezzo al genere, è chiaro sin da subito che si tratta di un omicidio.

Una premessa prima di raccontare la storia: citeremo solo il nome “di battaglia” che la prostituta utilizzava nel suo mestiere, “Antonella”; la sua identità è nota a tutti quindi non cambia nulla ma per raccontare una storia ci sembra inutile sfregiare la persona con l’infamante titolo di prostituta visto che poi neppure ha avuto giustizia. Antonella si prostituisce perché deve pagare dei debiti, tanti debiti lasciati dal marito. Ai due figli, uno di 22 e un altro di 19, dice che fa l’infermiera a domicilio, invece, ogni giorno s’incammina dal suo appartamento di via Monticelli e si dirige verso il “basso” di vico Indoratori. Antonella, prima, faceva effettivamente l’infermiera a S. Martino, era piccola di corporatura e assai graziosa, la sua disgrazia è un cattivo affare del marito che alla fine degli anni ’80 abbandona il suo lavoro di magazziniere e rileva un bar pur non avendo i soldi necessari. Chiede un prestito e finisce nelle mani di gente senza scrupoli, usurai. Lui muore d’infarto nel 1990.

La donna e i due figli devono traslocare dalla loro casa di corso Gastaldi a un appartamento ammobiliato in via Monticelli. Antonella deve abbandonare il lavoro con uno stipendio che non basta più a nessuno e calarsi nell’inferno dei vivi “la professione più antica del mondo”. Cinque anni dopo il suo corpo viene ritrovato orrendamente ferito dalla punta di un trapano conficcata in gola, Antonella non è morta subito ha agonizzato per ore e la sua morte risale ad almeno un giorno prima del ritrovamento del corpo. E’ stata la figlia a dare l’allarme non vedendo la madre da due giorni, telefonando al numero della signora che Antonella, secondo la copertura data dalla donna stessa, avrebbe accudito. Dall’altro capo del telefono risponde, invece, la proprietaria del “basso” che scende a controllare e trova il cadavere.

Il “basso” è un monolocale diviso in due: un arredamento spoglio, un tavolino, una televisione con il videoregistratore, due sedie, il letto. Il sangue è dappertutto. L’assassino dopo aver ucciso la donna si sarebbe lavato le mani, quindi avrebbe rovistato nella borsetta di Antonella e poi con grande freddezza sarebbe uscito, chiudendosi dietro la porta e tirando giù la saracinesca del piccolo locale. I carabinieri indagano, trovano tracce organiche sotto le unghie della donna, il che significa che ha lottato con l’aggressore, anche le macchie di sangue nel lavandino non sono riconducibili a lei. Parte una ricerca capillare tra i clienti di Antonella.

Lei era piuttosto ricercata tra gli habituè di quel “mondo”, era una persona intelligente metteva a proprio agio chi cercava attenzioni prima ancora che la frugale prestazione sessuale, raccontano le “colleghe”, la sua tariffa, non esosa, di 50 mila lire faceva sì che la clientela fosse numerosa composta da molte persone mature.

I carabinieri individuano due persone: un certo Sergio, ex collega del S. Martino, che ogni tanto accompagna Antonella a lavorare e prende con lei un caffè ma l’uomo ha un alibi di ferro e poi un cliente “affezionato” che attira le attenzioni degli inquirenti, è il proprietario dell’arma del delitto e i suo alibi rispetto a quella sera non sono così solidi. L’uomo avrebbe realizzato dei lavori nel piccolo locale dove lavorava la donna, imbiancato i muri e realizzato qualche piccolo lavoro di manutenzione. Ottavio Salis, elettricista sposato con due figli si trova improvvisamente indagato e scaraventato nelle prime pagine dei giornali come possibile omicida. Per lui si prospetta il carcere, un’ipotesi che lo sconvolge, parla con il suo avvocato che cerca di tranquillizzarlo ma non c’è verso.

E’ il tardo pomeriggio del 14 settembre quando esce sconvolto dall’ufficio del legale, intorno alle 20 qualche automobilista lo vede camminare sulla sopraelevata e viene avvisata la Polizia Municipale, pochi minuti più tardi all’altezza dell’elicoidale si lancia nel vuoto. Morirà dopo due ore di agonia al S.Martino. Lascia una serie di messaggi in cui dichiara la sua innocenza e saluta i propri cari. La tragica beffa arriva dopo una settimana: il 22 settembre gli esami del dna che confrontano quello di Salis con le tracce trovate nel “basso” accertano la completa estraneità dell’elettricista.

Qualche mese dopo un altro episodio tragico: la proprietaria del “basso”, ex prostituta, si suicida. La figlia racconta che dopo l’omicidio era caduta in depressione e non era più stata la stessa.

Gli inquirenti a questo punto sono in un vicolo cieco e le piste molto fredde. Solo ipotesi. Le più accreditate portano al mondo dell’usura deciso a dare una lezione alla donna per la sua insolvenza ma che senso avrebbe avuto uccidere una persona che sia pure con fatica riusciva a sostenere dei pagamenti? Un cliente in preda a un raptus omicida? Forse potrebbe essere l’ipotesi più plausibile dopo la lettera che arrivò nove anni dopo in Procura nell’ufficio di Patrizia Petruzziello: “Sono il mostro del trapano, non sono mai stato preso, ho paura sempre di finire in galera” scrive al sostituto procuratore come in un accenno di confessione e rivelando particolari che solo l’assassino può conoscere ma la sua identità resta ancora oggi un mistero.

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